Scrittura migrante, lingua madre e letteratura di viaggio

Tutto ebbe inizio più di vent’anni fa con l’uscita di Io venditore d’elefanti; scritto a quattro mani da Pap Khouma e il giornalista Oreste Pivetta. È la pietra fondante di questo genere letterario. Di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da allora, e di scrittori migranti ne son spuntati diversi. Il più conosciuto forse è Amara Lakhous, i cui libri hanno avuto una discreta fortuna commerciale. Anche Igiaba Scego è abbastanza conosciuta. Ci troviamo, però, di fronte a un equivoco di non poco conto. Igiaba, per quanto di origini somale, è nata e cresciuta in Italia, a Roma. Per cui dire che Igiaba è una scrittrice migrante è un po’ come dire la matriciana è un piatto etnico. Mi si scuserà la digressione gastronomica, ma da quando troneggia nelle classifiche dei libri più venduti la Parodi, le ricette culinarie sono diventate un genere letterario a tutti gli effetti. Ma lasciamo stare gli chef catodici e i loro best seller e torniamo a cuocere nel nostro brodo. Armando Gnisci e Fulvio Pezzarossa sono, ad oggi, esperti incontestati nel campo della scrittura migrante. Rimando, quindi, a loro per qualsiasi curiosità di tipo antologico, sociologico, etnografico, coloniale e postcoloniale, psicologico e persino psichiatrico (sembra che la tendenza all’interdisciplinarità insita degli accademici venga particolarmente eccitata quando sono chiamati a misurarsi con gli scrittori migranti). Un’altra studiosa destinata a seguirne le orme ereditandone fama e autorevolezza è Rosanna Morace, che, con il suo recente lavoro Letteratura-mondo italiana, sembra finalmente aver messo tutti d’accordo sull’opportunità o meno della dicitura scrittori migranti. La sua proposta è infatti quella di inglobare questi foresti scrittori nella formula, appunto, letteratura-mondo italiana. Ma è una vecchia, e persino stucchevole, diatriba questa di trovare una etichetta per catalogare definitivamente gli scrittori migranti; diatriba a cui io qui non ho nessuna intenzione di contribuire. Quel che, invece, proverò a fare sono alcune considerazioni personali e personalistiche riguardo alla scrittura e agli scrittori migranti, con l’intento di contestare l’assunto secondo il quale si tratterebbe di una sorta di variante alla letteratura di viaggio; equivoco, questo, che non mi sembra fin qui tenuto in conto dai critici di questa nuova letteratura.

Dunque.

Certamente, chi si avvicina alla scrittura migrante vi cerca un po’ quel che si trova nella letteratura di viaggio. Perché i viaggiatori, si sa, fanno esperienza di contrade e genti a noi lontane per farcene dono. Vedi Marco Polo ad esempio, e ben prima di lui Omero. Ma è solo in epoca a noi più vicina che si è consolidato il nostro modo d’intendere la letteratura di Viaggio: l’800. É in questo data secolo, infatti, che si diffonde la moda dei viaggi e dei relativi resoconti (i diari di viaggio)..

Questo modo d’intendere il viaggio e la letteratura di viaggio, però, è ammorbato da tanta di quella romanticheria che rischia d’intossicarci. Inoltre, ormai siamo tutti viaggiatori: il mondo è sempre più piccolo e non esiste meta che non sia a portata di mano e di portafogli. Le compagnie low cost fanno fortuna vendendo a buon mercato ai pendolari di tutto il modo il sogno di sentirsi viaggiatori.

Durante il mio primo viaggio verso l’Italia – l’ho fatto in treno – tenevo anch’io un diario di bordo. Andavo verso l’Europa. Volevo, in qualche modo, serbare traccia delle emozioni di questa importante tappa della mia vita. Stavo viaggiando. Stavo diventando uomo di mondo. Il punto, a mio avviso, è proprio questo: come mai molti vogliono essere considerati uomini di mondo? Solo per poterlo raccontare secondo me. Per farne un bel racconto tale da affascinare gli ascoltatori o i lettori. Ecco allora che pur muovendosi il viaggiatore la sua maggior preoccupazione è “fermare” le sensazioni, impressioni, considerazioni ecc che il viaggio gli suscita. Muoversi fisicamente per raccogliere aneddoti e trascriverli. Come se le cose degne di nota fossero soprattutto quelle che accadono fuori dal perimetro del vissuto quotidiano.

Credo che la dicitura “scrittori migranti” evochi, oggi, l’immaginario una volta alimentato dai diari (scrittori) di viaggio (migranti). Ma, a parte un certo potere evocativo, siamo in presenza di un modo di concepire il viaggio e la scrittura completamente diverso. I viaggiatori ottocenteschi attraversavano mari e monti per poi un giorno tornare indietro alle loro case e raccontare le cose mirabolanti che avevano visto. Gli scrittori migranti, invece, attraversano si mari e monti, ma per stabilirsi in un dato posto e lì raccontarsi. L’uditorio degli scrittori migranti non è ubicato nei Paesi che hanno voluto o dovuto lasciare per trasferirsi altrove. Lo scrittore migrante si fa sedurre, al contrario di Ulisse, dalle sirene; elegge residenza nel loro Paese. E forse non ha neppure nessuna Penelope ad aspettare il suo ritorno. Lo scrittore migrante parla alle sirene; fa loro da specchio, gli racconta dell’effetto del loro canto. Fa propria la loro lingua. Con lo scrittore migrante finisce anche mito del figliol prodigo, del ritorno. Il mondo globalizzato ha globalizzato anche le storie. Non essendoci più una casa a cui far ritorno, per la quale serbare le storie da raccontare, lo scrittore migrante cerca in ogni tappa del suo peregrinare un uditorio a cui rivolgersi. E siccome viviamo in un mondo di viaggiatori, alle sue storie siamo tutti interessati perché siamo tutti in viaggio. Siamo tutti formiche impegnate in un andirivieni per garantirci la sopravvivenza, e lungo questi tragitti ci scambiamo informazioni.

Per tornare alla questione puramente terminologica, credo l’interesse suscitato dalla formula “scrittori migranti” sia anche da ricercarsi nella nostra identificazione con il destino impresso nel suo significato, al di là della contingente aderenza o meno di tale definizione al più immediato senso che li si usa attribuire: quello cioè di etichettare in qualche modo gli scrittori non italiani che scrivono in italiano. Credo che gli scrittori migranti non siano altro che i primi sintomi di una rottura epistemologica nel narrare le storie, ormai capillarmente diffusa anche se ancora in modo sotterraneo. É in atto una frattura ontologica degli schemi narrativi che ancora le nostre sinapsi ottocentesche non riescono a cogliere a pieno. C’è in atto una mobilità delle storie internazionale, intercontinentale, globale per l’appunto, che sta creando un nuovo linguaggio per palesarsi. L’italiano fatto proprio dallo scrittore marocchino possiamo considerarlo un esempio in tal senso. Ma è solo un esempio, lo stesso si può dire dell’italiano raccontato dall’argentino o dal cinese. È lo stesso processo che sta intaccando anche altre lingue: il francese, l’inglese, l’arabo ecc.; é in atto, a più livelli, non solo quello letterario, un salto nell’evoluzione del nostro concepire il mondo; è come se le lingue madri non fossero più in grado di raccontare il mondo. Ora, è il mondo che sbarca nelle nostre case. Perché questo fanno gli scrittori migranti. Portano il loro mondo dentro le nostre case, che, nel frattempo, però, sono anche le loro di case. É come se ogni casa fosse diventata una babele. Gli scrittori migranti, come ho detto, sono solo l’elemento fisico più tangibile di queste trasformazioni in atto. Tutto questo sta cambiando radicalmente il nostro modo di concepire la diversità, non più come scostamento dalla norma, ma come il normale scenario del quotidiano. Questo credo, in estrema sintesi, il filo rosso di tutte le storie che ci raccontano gli scrittori migranti e l’implicito messaggio contenuto nelle loro storie. Ulisse sta tornando sui suoi passi per dire al ciclope Polifemo che non lo vuole più sfuggire, per dirgli di smetterla di considerarlo come una minaccia. E lo stesso fa con le sirene e con tutti gli altri mostri cui ha dovuto sfuggire. La diversità, diventando norma, cerca nuove modalità per essere raccontata.

Tutte le caratteristiche peculiari di una data comunità stanno mutando: la religione, la lingua, la nazione, il colore, il sesso, in una parola la cultura con il suo corollario che è l’identità. Forse, la caratteristica che ancora rappresenta un baluardo per la nostra identità è la lingua madre. Ma è proprio questa ultima roccaforte che viene presa ora d’assalto dagli scrittori migranti. Così Vito Mancuso in un suo recente articolo su La Repubblica http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-mestiere-di-pietro/?printpage=undefined: «La tradizione era la fonte di tutto, etica, diritto, politica, oltre che ovviamente religione e spiritualità. ..essa costituiva un potere generativo e gerarchizzante, da cui scaturiva un ordine che si imponeva semplicemente per il fatto di venire prima». Poi, Mancuso prosegue mostrando come l’entrata in crisi ( la perdita d’autorità della tradizione) di questo modo di vedere il mondo fosse conseguente alle scoperte astronomiche di Copernico, Keplero,Galileo e Newton. Queste scoperte sono state poi propedeutiche anche ad altre scoperte in altri campi come quella di Darwin (biologico), Marx (sociale), Freud ( antropologico). Per dirla con Mancuso, è come se con gli scrittori migranti ora questa perdita d’autorità delle tradizioni abbia cominciato a lambire anche le lingue madri.

La sostanza liquida della società di Bauman è la diversità. Non abbiamo più a disposizione le appartenenze rassicuranti di un tempo. I simili stanno scomparendo, abbiamo dinnanzi solo diversi, estranei. Con la convivenza fra musulmani, ebrei cristiani, sikh ecc siamo tornati di nuovo pagani, e in ogni casa abbiamo un altare per una divinità diversa da quello del vicino di pianerottolo. La diversità, abbiamo detto, è diventata la norma; tuttavia, noi siamo ancorati alle vecchie norme, perché la diversità ha bisogno di tempo per essere metabolizzata. Lo scotto che paghiamo per questa metabolizzazione è lo spaesamento, il disorientamento. Lo scrittore migrante è uno che ha vissuto questo spaesamento o lo sta vivendo e ce lo racconta. Con lui viviamo le sue paure e esorcizziamo le nostre. La diversità, d’altronde, è sempre stata il topos delle fiabe, e queste servono, per dirla rozzamente, ad esorcizzare le nostre paure. O ad insegnarci a conviverci. L’alternativa è chiuderci a riccio o nascondere la testa nella sabbia come gli struzzi, invece di continuare ad esplorare il mondo come tutti i viaggiatori del passato. Con la differenza che a noi basta farci un giretto in metropolitana per vedere più cose di quante ne ha viste Marco Polo. Viaggiare verso la diversità sta diventando sempre più a chilometri zero. Cionondimeno non abbiamo smesso di viaggiare, perché siamo lungi dall’aver raggiunto la meta per antonomasia di tutti i viaggi, e cioè noi stessi. Questo è il sempiterno viaggio che da sempre intraprendiamo. E in questo particolare frangente storico avere sottomano (anche) un libro di uno scrittore migrante può essere di qualche aiuto.

Fonte: Sul Romanzo ( http://issuu.com/sulromanzo/docs/sul_romanzo_anno_3_n_3_giu_2013 )

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One Response to Scrittura migrante, lingua madre e letteratura di viaggio

  1. Oriana says:

    Interessante. Non l’avevo letto Sul Romanzo. Hai fatto bene a ripostarlo qui… 🙂

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