Dalle chiappe alle schiappe

Leggendo il bel pezzo di Milton Fernandez sui culi e sugli scrittori migranti, mi son chiesto della ragione profonda del perché gli scrittori migranti trovino fastidiosa tale etichetta. Perché sul fatto che la trovino fastidiosa credo non ci siano dubbi. Anche questa volta, Milton in pratica ribadisce il fatto di non voler essere chiamato scrittore migrante. Vorrebbe semmai essere chiamato scrittore italiano, oppure se il suo stile non piace, il che equivale, come ci ha spiegato, ad avere un brutto culo, vorrebbe essere chiamato “Scribacchino Sedentario”. Che poi è la versione, un po’ macchinosa a dire il vero, per dire che il tale come scrittore è una schiappa.
Milton, non per via di ricerche etimologiche, ma basandosi su un aneddoto riferitogli da suo nonno, è persuaso che le schiappe sono tali per via delle chiappe. Fra le tante arrampiccature sugli specchi a cui ci ha abituato la critica letteraria, francamente è la prima volta che vedo tracciare dei profili autoriali basandosi sui culi degli autori e non sulle loro opere. Forse tale metodo può avere a che fare col fatto che Milton è sudamericano, ma non voglio farmi prendere anch’io dal tranello dei pregiudizi. Rischio questo comunque difficile da tenere a bada quando il livello si abbassa e la discussione degenera.
Detto questo torno alla ragione profonda.
Io credo che scrittore sia tutto sommato ancora un termine nobilitante. Mentre migrante, invece, evoca concetti non proprio nobilitanti. Quando si accostano i due termini è come se si screditasse la scrittura, lo scrivere e, quindi, gli scrittori. Esattamente quel che il migrante, scrivendo, non vuole. Il migrante, quando scrive, vuole riscattarsi da una certa immagine negativa che ancora evoca la parola migrante.
Per quanto riguarda il culo di Milton – voglio dire la questione culi sollevata da Milton – credo abbia comunque un fondo di verità. Ma è una verità per così dire ontologica: al di là della scrittura migrante, e trascendendo da mere questioni estetiche, nella vita avere culo è sempre una buona base di partenza.

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One Response to Dalle chiappe alle schiappe

  1. Milton Fernàndez says:

    Caro Malih, al di là delle questioni di lana caprina – quella delle chiappe più o meno ingombranti, che tendono a inibire il volo, per intenderci – (avrei potuto parlare di neurone, ma ho avuto paura di risultare troppo scurrile), credo che la ragione profonda sia molto più in superficie di quanto possiamo immaginare. Qui non si tratta di definirsi in termini nobilitanti o meno, ammesso che come dici tu l’uno lo sia e l’altro no. Come avevo scritto in un articolo precedente, trattante lo stesso argomento, io sono un migrante. Lo sarò a vita, e di questo ne vado fiero. Ma scrivo in italiano, perché vivo in italiano. In italiano mangio, cammino, lavoro, bestemmio, faccio l’amore, soffro e gioisco. Quando mi capita di fare le stesse cose in quella che una volta era la mia casa, cioè il Sudamerica, mi rendo conto che, mio malgrado, sto traducendo mentalmente. Credo succeda la stessa cosa a molta altra gente, a molti altri scrittori. Alcuni di questi nati qui, ma con un cognome o un colore della pelle non corrispondenti ai canoni locali di accettazione.
    Definirmi scrittore italiano, così come mi definisco cittadino italiano, è un’assunzione di responsabilità. Nella quale credo ciecamente. Nella quale mi auguro in molti comincino a credere. Per uscire da una aberrazione tipicamente italiana. Quel recinto non riscontrabile negli altri paesi europei (parlo di letteratura), dove si giudica l’operato e non la provenienza. Quell’Inghilterra che assimila i malabarismi verbali di Tom Stoppard, per fare un esempio, nato in Cecoslovacchia, e li fa diventare propri, o la Francia di Kundera, di Ben Jelloun, la Spagna di Onetti (e forse qualche altro migliaio di scrittori nati in altre latitudini), o l’Italia ancora in mentis dei di Apuleio (quello della metamorfosi, per intenderci), passato agli onori della classicità senza essere stato costretto a una distinzione di sorta, lui che proveniva dal Nord – Africa.
    Assumersi le responsabilità significa farsi carico anche delle critiche. Sacrosante. Se siamo capaci di volare o se ci teniamo ben stretta la zavorra, e quindi annaspiamo, si vedrà strada facendo. Questione di culo, insomma. Un abbraccio. Milton

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