Shahrazad

Il suo profilo emana un tempo che è vortice di ricordi, paure e speranze. Questo tempo è un attimo, e quest’attimo è adesso. Adesso lei è al posto di guida, io dal lato passeggeri che guardo dal finestrino le nuvole gonfie di marzo. Siamo parcheggiati al lungomare: c’è gente a fare footing, a portare a spasso il cane, a camminare a passo salutista. E gli amanti sono appartati nelle loro utilitarie. Ma il mio attimo non ha niente a che vedere con questo borghesume in cui sono immerso. L’attimo che sto vivendo non ha nulla a che vedere nemmeno con questo arcobaleno che fa capolino dal fondo dell’orizzonte: sorriso sguaiato dai colori sgargianti che squarcia il cielo e mi indispone. Irrompe indiscreto nel flusso dei miei pensieri distraendomi dal profilo di lei.
Lei è Shahrazad. Sì proprio lei, quella dalle mille e una notte. L’ho incontrata in una giornata d’agosto. Lei era la barista ed ad aiutarla dietro il bancone c’era suo marito. Un uomo piccolo dallo sguardo buono e triste. Sharahrazad non gli rivolge mai la parola. Lei aveva occhi che brillavano di notturni intrighi ed erano tutti per me.
Sono un uomo fortunato. Ho ordinato un cappuccino e brioche e ho compatito l’uomo che le stava a fianco. Mi sono lasciato andare alla voluttà del divanetto messo in un angolo del bar. L’arredo aveva l’eleganza delle tende beduine…una piccola libreria ben fornita, non alta, di legno… uno specchio incorniciato con minerali di varia forma e natura… tappeti dappertutto …tavolini bassi e arabescati; un paio di statuette all’altezza dei tavoli.
Tutto era morbido e nostalgico. La nostalgia era anche negli occhi di lui, tristi che invano sembravano cercare nella segreta trama che legava fra di loro i vari pezzi d’arredo uno scorcio di dimora che non fosse precario. La “trama segreta” era un’attesa su cui lui doveva vegliare. Quest’attesa è la loro complicità. In quest’attesa germogliavano e maturavano le storie che Saharazad un giorno avrebbe raccontato. Questo è scritto nel destino e loro attendevano come le pecore brucano e il sole sorge.
Entrando in questo bar, a chi non ha occhi per vedere Sahrazad, ecco cosa appare: una ragazza non più ragazza e non ancora signora, dalla camminata svelta e il corpo snello. Non italiana.Sia lei che suo marito provengo da un paese orientale. Una coppia di immigrati, quindi. Anche quando avranno finito di raccontare la loro storia, l’unica cosa che si serberà è l’immagine di una coppia dignitosa, mediamente colta con velleità artistiche sfuggita per motivi politici da un paese orientale e rifugiatasi in Italia.
Ora caro lettore tu sei uno che legge. Hai uno spirito critico. Sei uno che cerca di essere aggiornato, magari sei anche laureato. Il fatto stesso che mi stai leggendo vuol dire che hai gusti sofisticati. Non sei certo il tipo che si abbindolare dai titoli allarmistici dei media. Sei uno insomma che s’illude di essere l’artefice della propria percezione del mondo. Eppure, mi duole dirlo, sei il prodotto di una civiltà dell’immagine.Chissà quanti arcobaleni disturbano il corso dei tuoi pensieri . Non è certo colpa tua, lo so …anzi sarei presuntuoso se pretendessi da te, come è capitato a me, di scorgere sotto le vesti di questa gentile barista addirittura Shahrazad. Forse io ci riesco perchè anch’io sono un immigrato.
Noi due, io e te caro lettore, facciamo fatica a capirci. Qualcosa però mi dice che tu sei ben disposto. A ben vedere c’è una cosa che noi due abbiamo in comune ed è che anche tu sei assetato di storie. Ascolta. Il fatto è che sin dall’infanzia mi son nutrito di sole e di vento. Ho avuto per maestro un saggio carrubo. Nel mio paese (che non ti dico perchè non gli sovrapponga una delle tue immagini da Alpitour, o peggio ancora …) il sole batte forte, l’amicizia è un carrubo che mentre di dona la sua ombra le sue foglie gioiscono con un lieve tremito.
Francamente io credo, caro mio amico infarcito di immagini, tu Sahhrazad non potrai mai scorgerla in nessuna donna. La sua sensualità ti è preclusa per sempre.
Quando probabilmente tu andavi all’asilo nido a giocare coi lego, io andavo alla scuola coronica. E non mi ci accompagnava certo babbo o mamma in macchina. Ci andavo a dorso d’asino. La mia scuola era una stanza bianca con davanti un albero di fico. Era una costruzione in mezzo a un terreno brullo e sassoso. Sotto i sassi avevano dimora i serpenti e le vipere. Non avevamo quaderni ma tavolette di legno levigate. Niente penne ma calami di bambù da intingere nell’inchiostro. Non c’erano immagini da illustrare né c’era un senso da capire. Imparavamo che l’arabo era la lingua del Corano, le cui lettere forgiavano la memoria nell’argilla, nell’inchiostro e nel sole.
Questa per me, caro lettore è la sensualità. E’ il profumo e la sinuosità civettuola di lettere arabe incise con l’inchiostro nell’argilla. Le notti di Shahrazad sono nere come l’inchiostro della mia infanzia. Un fiume d’inchiostro che galoppa nel buio della memoria. Shahrazad non è un’immagine. Shahrazad è un profilo che è vortice di ricordi, paure e speranze.
Me la sto prendendo con te, caro lettore, ma tu non c’entri niente. E’ tutta colpa dell’arcobaleno, che prima mi ha distratto dal profilo di lei, e ora mi fa litigare con te.

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