Intervista all’immigrato

Quando vedo un immigrato intervistato io soffro. Di solito questi intervistatori è gente senza cuore, ma che dico… dei sadici a dir poco. Una volta individuata la preda, la si mette all’angolo e comincia la tortura. Al povero intervistato ben presto si spegne quella luce gioiosa negli occhi che gli si era accesa pregustando il momento del suo quarto d’ora di notorietà. Perché l’intervistatore di immigrati, diciamolo francamente, è un frustrato. Lui nella vita sognava di fare tutt’altro: da grande avrebbe voluto fare il giornalista, fare inchieste, occuparsi di politica, diventare una firma conosciuta ed apprezzata di Panorama o dell’Espresso. Invece il destino, cinico e baro, gli ha messo sul suo cammino uno di quei caporedattori ambiziosi e con la fregola di esplorare gli anfratti nascosti di questa società in rapido mutamento, dove si annida il nuovo che avanza. E, almeno da una ventina d’anni, s’annida immancabilmente nei dipressi dell’immigrazione e, giocoforza, in ogni immigrato. Al nostro giornalista in erba non rimane che adeguarsi. La redazione in cui lavora è improntata al politically correct, quindi esclusi, almeno per ora, pezzi allarmistici alla Sallustri o giù di lì: si tratta invece di scovare testimonianze edificanti, trovare immigrati disposti a raccontare la loro esperienza di migranti, il loro pecorso d’integrazione, come sono stati accolti dall’Italia e dagli italiani, dire delle peripezie burocratiche con il permesso di soggiorno, della loro dimestichezza con la lingua italiana, di quanti anni sono in Italia, dei figli avuti, della moglie e degli altri parenti ricongiunti, del rapporto coi colleghi di lavoro, dei sogni infranti e degli obiettivi raggiunti. Devono far vedere i figli, mostrare la cucina e la camera da letto, il frigo e la busta paga. Il nostro giornalista se la dve cavare in circa un quarto d’ora, là dove invece son richiesti anni ed anni ad un buon analista. Il povero immigrato si presta volentieri, sorride ma sotto sotto qualcosa non gli quadra. Si starà chiedendo: ma che avrò fatto per meritarmi tutta questa attenzione. Di quale talento mai, a mia insaputa, sarò portatore. Che record ho battuto e quali traguardi avrò mai superato per meritarmi tutta questa gloria. E allora io soffro per lui, per me e per il giornalismo. E anche per il giornalista. Soffro per lo spreco di risorse e per il vuoto d’idee. E mi vengono anche strane idee. Sono tentato ad esempio di mettermi anch’io a fare il giornalista. In fondo, che ci vuole? Basta un taccuino e un telefonino con videocamera. Farei senz’altro meglio di quel giornalista. Avrei domande più fantasiose, saprei sfruttare il mio percorso da migrante per entrare in empatia con l’intervistato, e se è il caso potrei anche usare queste mie prerogative per torturarlo meglio. E poi ormai intervistare gli immigrati è un genere collaudato. Un Format a tutti gli effetti. Dove sei nato? Da quanti anni sei in Italia? Che lavoro fai? Ti trovi bene in Italia? Le altre domande sono solo dei riempitivi.
C’è però un momento bello in queste interviste in cui non soffro più ed anzi tiro un sospiro di sollievo: è il momento in cui l’intevista è finita e vedi di nuovo quella luce radiosa negli occhi dell’intervistato nel mentre saluta il suo aguzzino e gioisce per il pericolo scampato. Tutto sommato è andata bene: sembrava più un interrogatorio ma almeno non si è arrivati ad infierire procedendo con le foto segnaletiche o, peggio ancora, con una perquisizione corporea.

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