È il pomeriggio di una bella giornata di sole. Sono in cucina. Dalla finestra un vorticoso pulviscolo si dirige verso il lavandino illuminando un cestello di posate. Queste lo accolgono accendendosi di vita propria, come fossero fiori.
Altre rare volte avevo colto questa vita segreta delle posate. Ma questa volta era palese che le posate – le forchette soprattutto – non sono solo quelli oggetti inanimati che pensiamo.
Quando la luce è propizia (evidentemente devono concorrere contemporaneamente anche molti altri fattori, fra cui credo lo stato d’animo del visitatore della cucina, la stagione, la temperatura, il tasso d’umidità, la composizione chimica e la forma delle posate stesse, la qualità del silenzio nella cucina, la presenza o meno di animali domestici nella casa, gli incontri avuti dalla luce lungo la strada che ha dovuto percorrere fra gli astri per giungere fin qui sul mio lavandino, e chissà quante altre cose!), quando la luce è propizia le forchette oltre a mostrarsi come cosa viva, possono lasciar trapelare anche un certo surplus di vivacità, una briosa allegria, un incarnato particolarmente splendente.
Lo so che gli scettici stanno pensando a questo vivido luccichio delle posate come dovuto semplicemente all’effetto di una lavastoviglie efficiente, opportunamente coadiuvata da ottimo detersivo e brillantante. Spiritosi.
Il fatto è che avete troppa confidenza con le posate, siete talmente abituati ad averci a che fare che nemmeno le notate più. Per me non è così.
Io e le forchette ci frequentiamo da molti anni, ma non da sempre, è solo da quando sono in Italia che ho un rapporto quotidiano con loro. Invece, chissà perché, ho sempre trovato naturalissimo usare il cucchiao per mangiare il cous cous invece delle mani nude. A casa mia, in Marocco, lo sapevano e quindi non c’era nessun problema. Invece quand’eravamo ospiti avevo sempre un attimo d’imbarazzo al momento del cous cous per via del fatto che dovevano portare un cucchiaio appositamente per me.
Credo però che questa particolare senisibilità per le posate non derivi solo dal mio particolare retaggio culturale: deve essere una cosa ereditaria. Penso questo per via di mia figlia, che per quanto sia nata e cresciuta in Italia sono anni che a tavola usa, per tutti i cibi tranne quelli liquidi, due bacchette di legno. Eppure l’unico contatto con l’oriente che abbiamo è quello saltuario che ormai tutti hanno con le rosticcerie cinesi sotto casa.
Ogni giorno gli scienziati scoprono qualche nuovo gene. Sembra ormai chiaro che per ogni nostra attitudine ci sia un relativo gene: c’è quello per l’abilità matematica, quello per l’aggressività, quello per l’orientamento nello spazio, quello per il tradimento ecc. Non è quindi da escludere che ci possa essere anche un gene che fa sì che si usino le mani al posto delle posate, o che si preferiscano le bacchette rispetto al coltello e alla forchetta. In ogni caso, almeno nel caso mio, questo gene deve subire delle mutazioni di generazione in generazione. Chissà con l’ausilio di quale arnese si ciberanno i mei nipoti…
(dalla mia rubrica su Escamontage)
Leggerti è sempre una delizia… Anche lì: che sia una questione di genetica?…il mio amore per chi scrive bene e il tuo scriver così bene? 😉
Piccolo appunto (se mi posso permettere): ‘gli scettici’ e non ‘i scettici’… 🙂
La esse impura (esse seguita da consonante) vuole sempre al maschile lo/gli: lo scettico, gli scettici.
Buona giornata e… grazie ancora. (pat)
grazie Pat!! ci sarà senz’altro (checché ne dicano “gli” scettici) lo zampino di qualche gene anche stavolta 🙂