Le donne. Ovvero, dell’integrazione erotico sentimentale di un giovane migrante

Le donne. Che parolone. Si fa a presto a dire donne. Le donne alte,
quelle magre, quelle rotondette, le tedescone, le donne arabe, quelle
asiatiche… l’elenco è infinito. Meno male che ora non ci penso più.
Voglio dire non più con quell’intensità da ragazzino, durata più o meno
dall’età di dieci anni fino a oltre i quaranta. Da ragazzino era proprio un
desiderio lancinante. Il primo ricordo di desiderio carnale legato a un
corpo femminile era rivolto ad una ragazzina che faceva le pulizie. Mi
ricordo del seno. Era un seno piccolo. Sotto un vestito lungo di quelli
che usano le donne marocchine. Non aveva il reggiseno. Era una ragaz-
za di carnagione scura. Ero circondato da donne. Da corpi di donne.
Da sguardi di donne. Accompagnavo mia madre alle feste. Quelle feste
che si fanno quando qualcuno si sposa, o quando in qualche famiglia
c’è la circoncisione. Durante queste occasioni c’era un esplosione di
corpi di donne. Prima delle feste c’erano i preparativi. Mia madre e le
altre donne che bazzicavano per casa: zie, amiche e vicine. Il kohol su
occhi neri e loquaci. Il marrone delle labbra e della lingua per via del
suak. I corpi generosi o snelli, sempre in movimento nei kaftan vario-
pinti. Le vite strette da cinturoni d’oro o di stoffa riccamente ricamati.
Gingilli alle orecchie. Fermagli shouka sul petto. Alcune tatuate di ver-
de sul mento o fra gli occhi, le mani arabescate di hennè. Ad allietare
queste feste venivano chiamate le chikhet. Sono delle cantanti ballerine.
Riservate alle sale dove erano i maschi. Mi accucciavo vicino a qualche
zio per veder le chikhet in azione. La musica dei violini e il suono dei
bendir ispiravano loro movenze di pura seduzione. Sculettamenti sot-
tolineati dai cinturini legati sul sedere o appena più giù mandavano in
visibilio i maschi presenti in sala, che contenti infilavano banconote nei
cinturini e nei decolté.
Ho un’immagine impressa nella mente: un culo abbondante di una
donna nel gesto di accovacciarsi per fare pipi. Eravamo in campagna
e lei, credendosi al riparo da occhi indiscreti, si era appartata per fare
pipì. Ho visto solo il culo, forse solo una natica. Sono sempre stato
attratto dai culi. Dalle movenze delle natiche. “Quant’è bella la donna
mia quand’ella il suo cul vacilla”. Le movenze dei sederi dentro le djel-
laba sono languida poesia.
Una volta in campagna, era sera, e allora non avevamo la luce elettrica,
si usava una sorta di lanterne a benzina. La casa era grande e con tante
stanze, per raccogliere tutti i famigliari e i bambini numerosi che ogni
estate si ritrovavano nella casa della nonna matriarca. Sono entrato in
una stanza e ho trovato una zia che faceva il bagno a una ragazzina
accolta in casa che aiutava nelle faccende in cambio di vitto, alloggio
e qualche regalo per la famiglia. Questa ragazzina era immersa in una
grande bacinella di zinco, in piedi, i capelli neri sciolti che arrivavano ai
fianchi, il seno piccolo e i capezzoli duri e scuri come l’aureola tutt’in-
torno. Giusto un attimo, un attimo e me ne andai o forse mi cacciarono
via. Ma questo corpo è rimasto fra le immagini che poi hanno plasmato
la mia idea di femminilità.
Da bambino andavo ogni settimana all’hammam con la mamma. Quin-
di ne devo aver visti di corpi femminili nudi. La trasferte all’hammam
femminile sono durate credo finché altre donne hanno cominciato a
fare alla mamma rimostranze sempre più insistenti sul fatto che ormai il
bambino fosse grandicello, un ometto ormai. Così una domenica sono
dovuto andare all’hammam con papà, in quello dei maschi. Eppure
non ho un ricordo specifico dell’esperienza nell’hammam femminile.
Ho un’idea annebbiata come lo sono le sale vaporose degli hammam.
Forse il nero dei pubi, braccia nude, culi adiposi… ma non ne sono
sicuro… mi devo sforzare per richiamare queste immagini e chissà se
attingo alla mia esperienza vissuta o al vissuto collettivo di tante gene-
razioni di ragazzini marocchini.
Più o meno credo sia questa l’idea di donna che ha nutrito i miei sogni
erotici di ragazzino e di giovane maschio. Giovane maschio intendo dai
vent’anni in su. L’età della mia immigrazione. E qui tocchiamo un tasto
dolente: l’integrazione sessuale di un giovane immigrato.
Ci vuole del coraggio per parlarne. Parlare di che cosa poi? E dove la
trovi una che appena arrivi in Italia, giovane ed arrapato, sia pronta
per te? Sogna, caro mio, sogna. Qui le donne promettono promettono
ma non te la danno mai. Tutto invita al sesso. La ragazze discinte in
televisione. I cartelloni pubblicitari. I cinema porno. Le tette della bari-
sta servite ogni mattina insieme al caffè. I pantaloni attillati. Le gonne
corte. I ragazzini che non fanno altro che baciarsi. E tu arrivi con tutto
il tuo armamentario erotico di giovane marocchino e ti convinci che
in mezzo a tutto questo sesso esposto in ogni dove il tuo momento
di farti una bella italiana arriverà senz’altro. Ebbene questo momento
non arriverà così presto, o forse non arriverà mai. Parlo per me alme-
no. Qualche mio compagno di avventura invece ce l’ha fatta. Ma sono
pochi, pochissimi. Di solito si tratta di ragazzi particolarmente aitanti.
Ma se rientri nella media, o forse sei anche un pochino al di sotto, sarà
dura molto dura. Ciondolerai per le strade, nei supermercati, nelle aule
dell’università con un’idea fissa, con il coso fra le gambe sempre all’erta
e ti toccherà arrangiarti. Ti toccherà, anzi non ti toccherà nessuna di
quelle che tu immagini… dovrai fare per conto tuo. Ci siamo capiti,
vero? È questo io lo considero un vero spreco. Non so come se la cavino
oggi i giovani immigrati sempre arrapati come lo ero io appena arrivato
in Italia. Ma credo che le cose siano cambiate in meglio per loro. Vedo
sempre più spesso giovani italiane con maschi maghrebini o neri in
atteggiamenti confidenziali. Invece ai miei tempi era rarissimo. Eppure
io leggevo negli occhi di molte la voglia di fottermi. Noi giovani maroc-
chini di allora eravamo convinti di essere più dotati degli italiani. Che
insomma una donna nelle nostre mani si sarebbe sentita più donna.
Avevamo una pessima idea del maschio italiano e di quello occidentale
in genere. Per dirla papale, ai nostri occhi erano mezzo frocetti. Parlo
così perché allora non consideravamo ancora il politically correct, e in
più eravamo pieni di pregiudizi. Le italiane, in quanto occidentali era-
no, chi più chi meno, delle zoccole. E in più qualcuno deve aver detto
loro che noi marocchini sapevamo il fatto nostro. Sicuramente sanno
che noi giovani marocchini ce l’abbiamo sempre duro. Che sappiamo
essere sfrenati e infaticabili. Eppure nonostante simile mole di luoghi
comuni e sfilacciati, non ci filavano. E intanto il tempo passava. E tu
sempre in cerca di consolazione. Che siano razziste per caso? Ecco bra-
vo, buttala sul politico. È così che credo sia nata “la questione immigra-
zione”. È nata per via del risentimento. Se nessuna te la dà, alla lunga
è frustrante. È l’inizio della disfatta, della depressione. Finisci per co-
minciare a frequentare i centri sociali. Finisci nei dintorni della facoltà
di psicologia. È risaputo infatti che in questi ambienti girano ragazze
tali e quali alle figlie dei fiori. Per queste ragazze ancora non è finita la
rivoluzione sessuale. Il loro motto è ancora “Dio me l’ha fornita e io ne
faccio quel che mi pare”. E se la offro a un marocchino è per via della
fratellanza universale (sante parole!). E poi con i marocchini si rimedia
sempre dell’erba buona. Nei pressi della facoltà di psicologia si trova
sempre qualcosa. Sono ragazze per lo più problematiche, però alla fine
te la concedono senza problemi. Da giovane immigrato costantemente
sull’orlo dell’implosione ormonale, ma inesperto del mondo, credevo,
mamma mia quant’ero ingenuo, che prenderlo in bocca per una donna
fosse una concessione rarissima, che presupponesse un grado di inti-
mità molto profondo. Invece ho scoperto che era in realtà uno sciocco
contentino. Poco più di una stretta calorosa fra colleghi. Ora io andavo
matto per i pompini, e questa scoperta mi ha aperto un mondo. Anche
se poi questo mondo aveva dei confini ben precisi: il centro sociale e la
facoltà di psicologia.
In ogni caso stavo prendendo una brutta china. Nei momenti di lucidi-
tà sapevo che non era quella l’integrazione sessuale che cercavo. Il mio
era un ripiego. Mi stavo politicizzando. Nonostante i tanti pompini il
mio rancore cresceva. Quello che volevo era una società più giusta. Una
società in cui anche un giovane marocchino, soprattutto se eccitato e
fremente, avesse il diritto di corteggiare una ragazza per bene. Di quelle
vestite normalmente; di quelle che non si vedeva da un miglio di di-
stanza quanto fossero fumate. Avevo bisogno di qualcuno da portare in
pizzeria. Qualcuno con cui uscire il sabato sera. Qualcuno con cui usci-
re a braccetto e limonare ogni tanto nelle vie del centro. Invece niente.
A noi immigrati vengono riservati solo i lavori che nessuno vuol fare. E
così finisce che ci integriamo solo con le ragazze dei centri sociali, con
quelle delle facoltà di psicologia. O peggio restiamo esclusi del tutto.
Uno poi ne risente e fatalmente si butta in politica. Tutte le manifesta-
zioni antirazziste, i cortei per il diritto di voto, gli scioperi dei migranti.
In verità è tutta una questione di sesso. Se ci limiteremo ai soli pompini
non avremo mai una vera integrazione!
Ma non è di politica che voglio parlare. Voglio confessare le mie vicissi-
tudini sessuali in quanto immigrato. Confessare appunto e non raccon-
tare. Perché per le cose di sesso ci vuole un minimo di discrezione. Ci
vuole buio o al limite penombra. La vergogna è un vampiro che teme
la luce del giorno, i flash e i riflettori. La vergogna si nutre del buio e si
ripara nel buio. Vive nel buio.
Ma il giovane immigrato non ha vergogna. Gode di un’illimitata li-
bertà. Non deve rendere conto a nessuno. Il giovane immigrato è ses-
sualmente invogliato e libero. C’è un verso di una canzone che dice “ti
senti solo con la tua libertà”. Questo è esattamente lo stato d’animo
del nostro giovane immigrato. Solo che non è solo. Ci sono lui e il suo
cazzo che ha delle pretese. Gira per la città in una sera fredda e si ficca in
un cinema. Dopo un po’ un uomo viene a sedersi accanto a lui. L’uomo
mette una mano sulle ginocchia del giovane. Il giovane non è sorpreso.
Se lo aspettava. Va in bagno e l’uomo lo segue. L’uomo fa un pompi-
no al giovane. Il giovane ora sa almeno dove andare per sfogare i suoi
istinti. Torna dai suoi amici e non è più lo stesso. Chiacchierano e si
raccontano le solite idiozie. Sicuramente anche i suoi amici hanno delle
relazioni omosessuali di ripiego. Per sfogarsi. Perché i marocchini mica
sono froci. I marocchini odiano i froci. Quello, cazzo, me l’ha succhiato
mica me lo ha messo nel culo. Non so da dove è uscita fuori la diceria
secondo cui i marocchini se la fanno fra di loro. ’Sti razzisti ogni tanto
spuntano con delle storie del genere.
Ma quando mai? I marocchini sono degli stalloni nati. Però anche nel
mio gruppo di amici cominciano a girare delle voci. Il tale lo si vede
sempre alla stazione perché va con gli uomini. È un frocio. Quell’altro
va sempre in quella parrocchia perché c’è un prete a cui piacciono i
marocchini. Il prete fa bella figura con i parrocchiani perché aiuta un
povero extracomunitario. Però chi mai ti crederà se dici che quel prete
va matto per il membro marocchino? Per ora la chiesa ha affrontato solo
lo scandalo pedofilia, ma a quando lo scandalo dei preti che si fanno i
marocchini? Quando se ne occuperà la stampa europea? Perché anche
questo è un abuso, o no? È peccato o no far finta di aiutare giovani
bisognosi al solo scopo di ciucciare loro l’uccello?
Queste però sono tutte domande che al giovane immigrato marocchi-
no non interessano per niente. L’unica cosa che conta è che il nostro è
arrapato. Punto.
Se Pasolini vivesse in questi nostri giorni, invece che di ragazzi di borga-
ta si sarebbe interessato di giovani maghrebini. Ne sono certo. Tornan-
do alla sacra schiatta deviata. Non sono solo preti, ma anche suore. Un
mio amico aveva una relazione con una suora. Fra l’altro questa donna
è ancora suora. Vivevamo in una delle cosiddette case d’accoglienza. Al
mio amico era riservata la camera migliore. Poteva tranquillamente non
rispettare le regole della casa: rientrare ad un certo orario, uscire di casa
entro un certo orario, pulire ad un altro ecc. La casa era gestita da suore.
Sapevamo in molti di questa storia, e in cuore nostro speravamo che
accadesse anche a noi. Ma farsi una suora non è mica roba che succede
tutti i giorni. Beato lui. L’unica cosa che so è che fra preti bocchinari
e suore libertine, la beneficienza è intrisa di storie di sesso. Basta guar-
darle in faccia le volontarie dei vari enti caritatevoli. La beneficienza
andrebbe fatta a loro. Sia chiaro però che io non sto denunciando: sto
confessando. Con vergogna ma mi confesso nell’unico modo che mi
sembra praticabile, scrivere. Ognuno è libero di scegliersi il suo confes-
sore di fiducia. Il mio confessore di fiducia è la penna. D’altronde di
vergogna, fra la fauna allupata che bazzica il mondo della beneficienza,
non ne ho vista. Ho sempre scorto facce buone e arrapate quanto me,
piene di misericordiosi propositi assistenziali.
Ma non è né di politica né di beneficienza che voglio parlare. L’argo-
mento che mi interessa, come sapete, è il sesso. E qui entrano in campo
le donne adulte. Perché questa è una categoria nella quale il nostro
giovane immigrato in eterna palpabile erezione s’imbatterà ben presto.
L’iniziazione sessuale di un giovane maghrebino immigrato in Italia è
spesso opera di una signora avanti con gli anni. Ah le signore mature!
Come sanno capire i problemi di noi immigrati.
Fra i molti lavoretti che ho fatto nel periodo dell’università non è man-
cato nemmeno quello del venditore porta a porta. Andavo in giro con
il mio borsone sulle spalle a suonare ai campanelli, e spesso chi rispon-
deva erano delle donne. I mariti, suppongo, erano fuori a lavorare. Op-
pure, quando a rispondere erano signore in età da pensione, suppongo
fossero mogli pensionate di mariti pensionati che erano fuori a giocare
a carte. Insomma, i mariti per un motivo o l’altro sono sempre fuori.
Alla faccia delle pari opportunità. Sarebbe solo frivola disgregazione
se mi mettessi ora a raccontare delle porte sbattute in faccia o delle
espressioni poco carine con cui si liquidano gli scocciatori che suonano
alle porte per vendere qualche cosa. Soprattutto se sono dei Vucumprà.
Una volta però una signora è stata molto carina. Non solo mi ha aperto
la porta di casa ma mi ha aperto anche le sue gambe. Il nostro è sta-
to davvero un incontro interculturale. Io ho dato tutto me stesso in
quanto giovane marocchino infoiato, e lei altrettanto generosamente ha
dato tutta se stessa in quanto signora italiana di ampie vedute, aperta al
mondo, per nulla razzista e pronta ad accogliere tutto il buono che la
diversità reca in sé. Finito il nostro incontro ravvicinato, ringraziando la
porosità delle frontiere, ci siamo salutati con reciproco rispetto. Dopo
ho suonato ad altri campanelli ma senza altrettanta fortuna.

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