Mondiali 2014: squadre sempre più multietniche e quello sguardo un po’ così dei calciatori durante gli inni nazionali

Io di calcio me ne intendo quel poco che basta. Non ho una squadra del cuore, ad eccezione della nazionale marocchina in occasione di incontri particolarmente importanti e di una certa simpatia per la Juve che nemmeno so a cosa è dovuta. Tuttavia non sono refrattario alle magie dei Messi e dei Maradona. Quando però ci sono i Mondiali seguo con una certa regolartà il calcio, tifando l’Italia di solito ( nè jus soli nè jus sanguinis, certi migranti meriterebbero la cittadinza per lo jus tifosae, tanto si disperano quando perde l’Italia). E quando questa non gioca, il mio tifo va alle squadre del calcio emergente dei paesi poveri. Perchè ci mettono cuore, perchè hanno fantasia, perchè hanno fame di vittorie… perchè insomma in qualche modo mi ci riconosco.
C’è un aspetto, che di mondiale in mondiale si fa sempre più chiaro e che trovo particolarmente interessante: la varietà culturale dei giocatori che militano nella stessa squadra. Il momento migliore per cogliere tutte le implicazioni (di natura psicologica, sociologica, identitaria ecc) di questa varietà è quello subito prima del calcio d’inizio. Quando cioè le telecamere ci mostrano i giocatori allineati nel campo, con davanti ciascuno un bambino, le mani sul cuore a seguire con il labiale l’inno nazionale. Anche non conoscendo la lingua della nazione che al momento viene cantato, si capisce benissimo che i giocatori non hanno nessuna dimestichezza con quell’inno: i movimenti delle labbra infatti vanno in tutt’altra direzione rispetto a quanto viene diffuso dall’altoparlante. Qualcuno più coerente se ne sta con la bocca chiusa. Tutti però, al momento dell’inno, con un gioco di mascelle virilmente protese, cercano di ostentare un attaccamento alla bandiera, un amor patrio, una fedeltà alla maglia, un’abnegazione al dovere a dir poco commoventi. Invano si sperticano di convincerci che sono lì pronti a vincere o perire per il prorio Paese. Inutile dirlo, non sono credibili. Tutto lo pseudo eroismo nazionalista si limita al gioco di mascelle. A tradirli sono gli occhi: hanno uno sguardo perso, vacuo, indecifrabile… con un’ espressione che da sola rende tutta la liquidità Baumiana dell’odierna società. Direi insomma, senza giraci troppo attorno: uno sguardo ebete. Ma lo dico (ebete) però senza alcun riferimento moraleggiante riguardo le arcinote questioni come quella dello scarto evidente fra la bassa caratura intellettuale dei giocatori rispetto ai loro altissimi guadagni. Se ho usato il forte aggettivo è solo per speculazione dialettale: mi fa gioco per sottolineare quanto il nostro stato d’animo di noi (noi tutti) globetrotter della globalizzazione, in effetti abbia molte assonanze con l’ebetudine dello sguardo dei calciatori al momento dell’inno nazionale. Anche noi, a me sembra, un po’ prima di alzarci la mattina, mettiamo senza troppo convinzione una immaginaria mano sul cuore, con in sottofondo un immaginario inno a non so cosa, nel mentre ci accingiamo a giocare le nostre partire del quotidiano. E sempre con lo stesso sguardo, un po’ ebete, guardiamo il mondo di fuori, sentendolo un po’ nostro ma anche no. Per fortuna sono solo attimi, poi ci pensa il fischio dell’arbitro o, nel nostro caso, la sveglia a rompere l’incantesimo. Almeno spero. Perchè ho come l’impressione che per quanto questa benedetta globalizzazzione ci unisca a noi “diversi”, tenda anche a omogeneizzare i nostri sguardi. Che sempre di più somigliano a quelli dei calciatori durante l’inno nazionale.

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Europee 2014, l’analisi di Stracomunitari

Italia, Europee 2104. In lizza c’erano una congolese, un greco, qualche padano e molti italiani. Forse persino un alieno: Magdi Cristiano Allam.

Tutti i candidati, durante la campagna elettorale, ne hanno dette di cotte e di crude sul conto (e sui conti) dell’Europa. Tipo: Basta Euro; fuori dall’ Europa; Bruxelles ladrona. Intanto però tutti chiedevano voti per andare proprio in questa landa dell’universo così tanto sporca e cattiva.

Gli elettori, benevoli, sono stati ad ascoltare tutti, poi hanno dato a ciascuno più o meno quel che chiedeva, proporzionalmente alla forza con cui questa volontà veniva espressa.

Meno del 4% dei voti a chi ha manifestato chiaramente di non volere l’Europa.

Più del 6% dei voti è andato alla Lega. Qui l’Europa c’entra poco: qualsiasi altra destinazione andava bene. Nel caso specifico, quel che all’elettore premeva era soprattutto vedere certa gente fuori dall’Italia.

Inspiegabile il 4,4% ad Alfano.

Più del 40% dei voti è spettato alla compagine capitanata da Renzi. Qui la fregola per l’Europa era evidentissima, anche se l’eloquio era garbato e sembrava chiedesse null’altro che un lascia passare per Bruxelles.

Il 16,8% di Berlusconi è l’ennesima prova che, al cavaliere, non bisogna mai darlo per spacciato. Riesce sempre a rinascere dalla sua cipria. Quando hai la fortuna di circondarti di gente come Signorini, Toti e Dudù nulla è impossibile.

E poi ci sono i grillini, che non si capiva se volevano stare fuori o dentro a quest’Europa. Nel dubbio, il popolo sovrano ha emesso, anche in questo caso, un equo verdetto: il 21,1%. Nè più nè meno di quel che basta per stare con un piede un piede in Europa e l’altro nel loro amato blog.

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Le tragedie del mare e le nostre coscienze smart

Ci giunge notizia di un’altra “tragedia del mare“. L’ipocrita linguaggio dei media parla di 40 morti e centinaia di dispersi. Se son dispersi allora forse si salveranno. Prima o poi troveranno il sentiero giusto. Dispersi: è una parola carica di speranza. Lascia credere che il peggio non sia ancora avvenuto. Meglio dispersi che morti. E a noi, fruitori dei media, ci va bene così. Il nostro tasso di tollerabilità alle tragedie è quello che è: preferiamo parole meno crude quando le tragedie non ci toccano da vicino. Se son solo dispersi allora la vicenda è cosa dei soccorritori e di altri professionisti dei disastri. Possiamo ritenere adeguata la nostra tiepida commozione. Il nostro cordoglio, senza sensi di colpa, lo riserveremo per altre e più vicine tragedie.
In questi giorni a Senigallia c’è stata un’alluvione grandiosa. Qualcosa di biblico. Mezza città letteralmente sott’acqua. Una tragedia, e una strage sfiorata. Ci son stati 3 morti e nessun disperso. Danni materiali incalcolabili. Si trattava di rimboccarsi le maniche è salvare il salvabile. La reazione dei senigalliesi è stata eroica. Un’esercito di donne, uomini, giovani e giovanissimi si son armati di pale e stivaloni e si son messi a ripulire stanze, androni, cantine, scantinati e garage dall’acqua e dal fango. Hanno messo all’opera tutta la forza di cui sono capaci per ripristinare le cose com’erano prima dell’alluvione. Davanti alle case si sono ammassati tutti gli oggeti rovinati dall’acqua e dal fango. Le strade erano un groviglio indistinto di lavastoviglie, lavatrici, frigoriferi, divani, armadi, sedie e mobilia e suppellettili varie. Certo ci son stati i 3 morti. Ma la sensazione è che andata comunque bene. La tragedia poteva esser ben più grave e le vite perse molte di più. Per immane che è stata la sciagura la situazione era rimediabile. Il danno materiale per quanto ingente è sempre in qualche maniera rimediabile. Le vite umane, quelle no: quelle son perse per sempre. Aumenta solo il cordoglio e la disperazione della comunità in cui sono avvenute.
Nelle targedie del mare non c’è niente da salvare. Nulla di materiale. Il mare si mostra reticente persino a restituire i corpi. E poi i morti sembrano non appartenere a nessuna comunità. Le loro comunità d’origine sono già lacerate da guerre e fame. Mettono in conto di perdere la vita poichè fuggono da morte certa. I giornali parlano in questi casi di tragedie. Ma le tragedie presuppongono l’imponderabile: qualcosa di straordinario che accade. Le morti dei migranti in mare non ha nulla d’imponderabile. Finchè ci sarà gente che si avventura per mare con le “carrette” bisognerà mettere nel conto altri annegati. Altri titoli parlano di “stragi” di migranti. Una strage ci richiama alla mente morti causati per mano di qualche essere sanguinario. Se diciamo strage allora ci deve essere anche un colpevole. E forse tuttosommato la parola strage in questi casi è quella più appropriata. Anche se poi ammesso questo dobbiamo avere il coraggio di ammettere che siamo noi tutti i sanguinari, i colpevoli. Colpevoli della nostra inerzia. Colpevoli di eleggere quelli che ci promettono misure sempre pià restrittive contro “l’immigrazione clandestna”. Colpevoli di sfruttare i superstiti nella raccolta di pomodori e altri lavori pagati una miseria. Colpevoli di affamare chi poi è costretto ad emigrare per cercare sussistenza in altri paesi. Meglio allora parlare di dispersi è passare ad altro. Meglio parlare di tragedie. In fin dei conti sono morti che non ci appartengono. L’unica cosa che ci lega a loro è che appartengono alla razza umana. Ma evidentemente questo oggi non è più sufficiente per mobilitare le nostre coscienze. Il perimetro entro cui agire la nostra solidarietà si restringe sempre di più. La nostra sensibilità ha un raggio sempre più limitato. Più il mondo si fa piccolo e più la nostra umanità si adegua. Le uniche stragi o tragedie che ci riguardano sono quelle che avvengono nelle nostre case o poco più in là. Siamo fatti così noi esseri glocal: siamo dotati di coscienze smart e la nostra empatia è a breve gittata; animali più domestici che sociali.

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I nuovi senigalliesi in soccorso degli alluvionati

foto

È bastata una notte di pioggia battente. Il giorno dopo, al risveglio metà città era sott’acqua. A regnare è l’incredulità. Non sappiamo più avere un rapporto ordinario con questi elementi: l’acqua, la terra e il fuoco. Quando abbiamo a fare con loro è perché è in atto qualche emergenza: un incendio, un terremoto o, come n questo caso, un’alluvione.

A Senigallia sappiamo che il fiume da qualche parte a ridosso della città è uscito dal suo alveo e si è allargato a dismisura, andando a lambire i primi piani, annegando gli scantinati e inghiottendo e trascinando tutto quel che incontrava strada facendo. Le vie che ci sono famigliari ad un tratto non ci sono più: tutto trasformato in una immensa piscina. Una signora dice ai soccorritori che il resto della famiglia è isolato a casa e vorrebbe raggiungerli. Decisi i soccorritori rispondono che non si può, è pericoloso. Deve stare tranquilla. La signora mugugna qualcosa ma accetta senza fare scenate. Non ci sono scene di panico.

La tragedia si sta consumando sotto ai nostri occhi ma l’acqua sembra attutire anche i sentimenti. Solo l’incredulità è tanta. Tutta questa acqua che si è presa le strade e le case: placidamente, con la forza calma dei troppo forti. Le case sono al buio, i telefoni non prendono e ovviamente non c’è internet. È bastata una notte di pioggia battente e ci siamo ritrovati all’età della pietra.

Gira voce della prima vittima dell’alluvione. Forse sono due. Si scoprirà dopo che in tutto sono state tre. Solo il giorno dopo la prima notte con l’acqua qualcuno comincia timidamente a cercare i colpevoli o capri espiatori che siano. Ma si fa tanto per dire. Nessuno conosce il fiume. Dove nasce e i borghi che attraversa. Si parla in maniera generica di incuria. A tempo debito ci sarà l’intenditore che spiegherà a puntino il perchè e il come, ma nessuno lo starà a sentire. Son cose da esperti. Intanto l’acqua sta obbligando la gente a riparlarsi. Affiora a pelo d’acqua qualcosa tipo una comunità. La sera non c’è la corrente, quindi niente televisione e niente facebook. Si torna a stare attorno a un tavolo a lume di candela e tutto sommato non è male.

Ora mentre scrivo queste righe il percolo è scampato. Il fiume è tornato a scorrere tranquillo. L’acqua è defluita dalle vie lasciando molto fango. Ora cominciano a vedersi i danni. Davanti alla case cumuli di mobili accatastati. Moltissimi giovani infangati a dare una mano a chi ne ha bisogno. L’immagine emblema di questo post alluvione sono i giovani. Vedere questi ragazzi e ragazzini tutti infangati con gli stivaloni e spostare mobili e a spalare fango quasi ti viene da ringraziare l’alluvione.

Tolti gli abiti griffati, i motorini, i cellulari son tornati ad essere ragazzi e ragazzini pieni d’umanità. Felici di essere protagonisti. Non propriamente protagonisti, perchè non c’è niente di ostentato nella loro solidarietà. Felici di essere d’aiuto, di essere utili.

Certo la gente senigalliese tutta è davvero mirabile nella maniera con cui sta affrontando questo disastro. Ma lo fa nel suo consueto modo: lavora tanto senza lagne. Mentre i giovani infangati stupiscono. Siamo abituati a vederli quasi come una specie a parte. L’acqua che si è abbattuta su Senigallia si è portata via anche un sacco di pregiudizi. Non è vero che i giovani sono dei viziati scansafatiche.

In giro si vedono molte facce nere, ragazzi marocchini, e on solo a spalare fango come tutti gli altri. Il fango ha reso tutti uguali. Tutti ugualmente sporchi di fango. Tutti ugualmente umani.
Per quanto si è scettici vien quasi da prestare fede a quelle storie che ci vogliono creati inizialmente dal fango. Come questa: “Dio formò l’uomo dal fango della terra, gli insufflò nelle narici un alito di vita e l’uomo divenne anima vivente”. O quest’altra: “È colui che ha perfezionato ogni cosa creata e dall’argilla ha dato inizio alla creazione dell’uomo, quindi ha tratto la sua discendenza da una goccia d’acqua insignificante, quindi gli ha dato forma e ha insufflato in lui del Suo spirito.”

Faremmo bene a non dimenticarcene quando tornerà il sereno.

http://youtu.be/j7aQQ7XzSo0

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5 libri sui libri e altre considerazioni

Con la lettura devo avere uno strano rapporto. Nel senso che se mi penso nel tempo, mi vedo sempre a leggere. Mi basta incrociare delle lettere e parte in me il lettore automatico. Ma se cerco di ricordarmi i libri che ho letto non è che ne venga fuori chissà quale elenco. Soprattutto mi rendo conto che son pochissimi i “classici” che ho letto. Ne dico uno per tutti: Cent’anni di solitudine, ad esempio, mi manca. E questo mi porta a chiedermi: e allora che cacchio hai letto se stavi sempre a leggere? Sarà mica una questione di memoria? Credo che la cosa abbia a che fare con il non avere un interesse specifico. M’interesso di molte cose senza poi approfondire niente. Leggo quel che mi ritrovo fra le mani, a seconda dell’interesse del momento (e anche del luogo). Poi ho questa strana tendenza: mi piacciono i libri degli altri. Delle case degli altri. Anche senza leggerli ti fai un’idea del genere di idee e di vita che è circolata e circola in quella determinata casa. Di quanto è consolidata o meno la confidenza che quella persona (e famiglia) ha con i libri e il sapere. Posso dire di cominciare a capire qualcosa di una certa persona solo se ho avuto modo di frequentare la sua libreria. E mi pare singolare, fra i tanti convenevoli di buona creanza, che non ci sia la prassi di invitarsi a vicenda per farsi vedere le rispettive librerie. “Un giorno di questi la invito a prendere un tè così le faccio vedere la mia libreria”. E star lì a discutere del come e quando quel particolar libro è finto in quello scaffale. Trovare, chessò, una vecchia copia di Somerset Maughan, nella libreria di un conoscente di recente acquisizione a me basterebbe per sentirmela in qualche modo più vicina e famigliare e persino più affidabile. Non saprei dire perchè proprio Maughan mi debba fare questo effetto, ma sento che è così (sarà forse per via che è uno di quegli autori che andavano di moda qualche decennio fa e quindi facilmente lo ritrovi nelle librerie e che in effetti mi è capitato di scorgere in diverse case). Fra l’altro di questo autore ho letto poco o niente: un paio di capitoli di un suo libro che ha la parola rasoio nel titolo – mi rendo conto che è poco come resoconto di una lettura, ma quel che è più grave è che credo sia tutto quel saprei dire non solo per questa lettura nello secifico, ma di qualsiasi cosa io abbia letto sinora. Direi insomma che ho dei ricordi impressionistici delle mie letture. Molto fumosi.

Fra i tanti fuochi fatui che alterno, ultimamente mi sembra di aver scoperto una certa “passione” per i libri cha parlano di libri. Uno in articolare mi tiene compagnia da una quindicina danni. ed è 1) il Piacere di leggere (volevo averlo sotto mano per questo post ma non lo trovo, eppure quando non mi serve ce l’ho sempre fa i piedi) di Giorgio Montefoschi, tutto sottilineato e impolverato. All’epoca, quando lo comprai, mi ero ripromesso fermamente di leggere tutti i libri che consigliava. Ovviamente il nobile proposito è rimasto tale (salvo un paio di titoli).
2) Una certa idea di mondo di Alessandro Baricco.
Autore questo che leggo sempre con piacere, anche se poi ogni due righe mi ritrovo a sorridere per il suo modo piacione di scrivere. Quanto ai suoi cosigli di lettura non è li prenda per oro colato. Leggere Baricco è comunque una boccata d’aria fresca e mi serve per riavermi e ritrovare il piacere dei libri dopo quel genere di letture magari anche edificanti ma che spesso purtroppo sono anche assai collose.
3) Nautilus di Beniamino Placido.
Non è propriamente un libro sui libri ma non c’è scritto di questa raccolta che non parta o citi strada facendo altri libri. Leggerlo ogni tanto, a Beniamino Placido, serve a riconcilarmi con i “professoroni” e con quel certo modo tanto dotto quanto pedante di usare la parola. A parte il suo bello scrivere vien da dire che è un autore gentile. La sua gentilezza sta nella cautela con cui ti somministra il suo sapere. Trova sempre l’aneddoto giusto per addolcirti la pillola. Direi, se non fosse espressione consunta, che è un autore leggero. Ma non di quella leggerezza che sfocia nell’inconsistenza: soglia questa varcata solo dagli autori che in nome del mito della leggerezza, oltre a liberarsi da tutti gli orpelli decorativi, stilistici ecc che li tengono lontani dalla loro personale idea di bella scrittura, si liberano anche, come fosse superflua zavorra, anche dell’intelligenza. E quando questa manca il risultato che si ottiene non è la leggerezza ma il vuoto cosmico. Va detto che per intelligenza non intendo chissà quali complessi meccanismi cerebrali. L’intelligenza che ho in mente somiglia molto di più alla generosità: quella cioè di dare in pasto al lettore anche solo un po’ di farina ma che sia del tuo sacco. Generosità che è anche onestà: scrivere non tanto per scrivere (i mestieranti lo sanno fare benissimo) ma farlo quando si ha qualcosa da dire. Di proprio.
4) Piero Dorfles – I cento libri che rendono più ricca la nostra vita
è un libro che ancora non ho ma che ho avuto l’occasione di spiluccare. Quel poco che ho letto di questo libro mi è bastato per farmi quest’idea del modo in cui è scritto: trattasi di scrittura di servizio. Senza nessuna intenzione di sedurre. Priva anche di qualsiasi tentativo di arrampicamento sui concetti. Leggera? No, direi piuttosto modesta. Anche qui, si tratta di quella modestia che solo pochi possono permettersi: quelli che hanno letto molto, e bene. é un libro concepito per essere consultato. Niente estetismi, ma solo tanta ciccia.
Marco Belpoliti, L’età dell’estremismo
Questo è il genere di libro che ha una tesi. Un saggio. Vuole farsi un’idea del mondo partendo dai crolli e dalle macerie del secolo breve. Marco Belpoliti è figlio dello strutturalismo e si sente parecchio. Ma al di là della tesi che lo sorregge (e mi guardo bene dall’ addentrarmi) è pieno di titoli affascinanti. Affascinanti cioè per gente come me: quelli cioè che vorrei ma non posso. Vi si parla di gente come Susan Sontag e Hermann Broch. Di temi come il Kitsch, le arti figurative e di avanguardie. Tutti temi intessantissimi per gente come me, cioè facilmente impressionabile dalla cultura e, a sprazzi, decissimi a farsela propria, ma che inevitabilmente poi passa ad altro. Se siete anche voi gente così è un libro da tenere in casa. Vi serve a ricordarvi che in giro c’è gente molto più intelligente di voi. Gente, per dire, che si è laureata con Umberto Eco. Ora che ho nominto l’innominabile, sempre se siete anche voi gente come me, vi affiorano alla mente cose come Il gruppo 63, gli anni sessanta, la sinistra, la semiotica, la televisione in bianco e nero, Middle cult, Berlinguer, Mike Bongiorno, la cultura di massa, Iva Zanicchi… e altri simili pezzi di modernariato che nel mio immaginario di lettore dispersivo, confuso e sconclusionato fanno parte di un passato glorioso e irrepitibile. Ed infine, ripeto, se anche voi siete fatti come me e cioè subito il fascino di quest’epoca di grandi intellettuali alla Umberto Eco e Roland Barthes, e vi ramarricate di non essere così vecchi da averla potuta vivere quand’era al suo culmine, allora consoliamoci del fatto che siamo tuttavia abbastanza maturi, e quindi nel pieno delle nostre facoltà intellettive, da poter godere del privilegio storico di assistere da testimoni diretti (e savi) all’inclusione fra il novero di cotanti illustri personaggi, che hanno segnato così pesantemente quest’epoca, al loro ultimo esemplare: Silvio Berlusconi. Come per tutte le cose che finiscono dell’amaro ci rimane in bocca.Tuttavia la vita continua, e non c’è tramonto a cui non segua un’alba. Come ci conferma il nuovo astro nascente che di nome fa Dudù.

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La ragazza ha la pelle d’oca

Una manciata di poeti. Musicisti: violino, clarinetto, sax e chitarra. Tutti chiamati a Sant’agata Feltria da Rosana Crispim da Costa (squisita padrona di casa nonchè ottima regista) per lo spettacolo I dialetti nella valle del mondo, da lei ideato, giunto quest’anno alla terza edizione. Palcoscenico: Teatro Angelo Mariani di Sant’agata Feltria, quel che si dice un piccolo gioellino. Piccolo miracolo per un reading di poesia: teatro pieno pieno, sold out. Vitto e allogio e convivialità presso il B&B Molino Del Gobbo ( anche questo di Rosana Crispim da Costa)
Lisa Bortolato (poetessa), più volte quando suonava Jamal Ouassini ha detto che ha la pelle d’oca. Messe insieme tutte queste cose, più l’aria di collina e qualche bicchiere di buon vino ne è nata questa poesia, un modo come un altro per ricordare questo bell’evento:

La ragazza ha la pelle d’oca

tace il violino nella sua custodia
il sole è alto da un pezzo
quando con un paio di caffè
intanto s’accorda la giornata
il violinisa ha le gote lisce di chi è amato
il sorriso benevolo di chi è grato
suonare il violino non è questione di spartito
è lo sguardo di uno che arriva
di uno che parte
è il vento di Tangeri
in una chioma corvina
poi certo
è anche merito dell’archetto
la ragazza che ascolta
dice “ho la pelle d’oca”
ragazza
questa è una storia
araba
andalusa
è la voce di generazioni di poeti
è l’eco lontana
dei dialetti nella valle del mondo
ragazza
questa è musica
di uno che parte
di uno che arriva
poi certo
è anche merito dell’archetto.

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Le donne. Ovvero, dell’integrazione erotico sentimentale di un giovane migrante

Le donne. Che parolone. Si fa a presto a dire donne. Le donne alte,
quelle magre, quelle rotondette, le tedescone, le donne arabe, quelle
asiatiche… l’elenco è infinito. Meno male che ora non ci penso più.
Voglio dire non più con quell’intensità da ragazzino, durata più o meno
dall’età di dieci anni fino a oltre i quaranta. Da ragazzino era proprio un
desiderio lancinante. Il primo ricordo di desiderio carnale legato a un
corpo femminile era rivolto ad una ragazzina che faceva le pulizie. Mi
ricordo del seno. Era un seno piccolo. Sotto un vestito lungo di quelli
che usano le donne marocchine. Non aveva il reggiseno. Era una ragaz-
za di carnagione scura. Ero circondato da donne. Da corpi di donne.
Da sguardi di donne. Accompagnavo mia madre alle feste. Quelle feste
che si fanno quando qualcuno si sposa, o quando in qualche famiglia
c’è la circoncisione. Durante queste occasioni c’era un esplosione di
corpi di donne. Prima delle feste c’erano i preparativi. Mia madre e le
altre donne che bazzicavano per casa: zie, amiche e vicine. Il kohol su
occhi neri e loquaci. Il marrone delle labbra e della lingua per via del
suak. I corpi generosi o snelli, sempre in movimento nei kaftan vario-
pinti. Le vite strette da cinturoni d’oro o di stoffa riccamente ricamati.
Gingilli alle orecchie. Fermagli shouka sul petto. Alcune tatuate di ver-
de sul mento o fra gli occhi, le mani arabescate di hennè. Ad allietare
queste feste venivano chiamate le chikhet. Sono delle cantanti ballerine.
Riservate alle sale dove erano i maschi. Mi accucciavo vicino a qualche
zio per veder le chikhet in azione. La musica dei violini e il suono dei
bendir ispiravano loro movenze di pura seduzione. Sculettamenti sot-
tolineati dai cinturini legati sul sedere o appena più giù mandavano in
visibilio i maschi presenti in sala, che contenti infilavano banconote nei
cinturini e nei decolté.
Ho un’immagine impressa nella mente: un culo abbondante di una
donna nel gesto di accovacciarsi per fare pipi. Eravamo in campagna
e lei, credendosi al riparo da occhi indiscreti, si era appartata per fare
pipì. Ho visto solo il culo, forse solo una natica. Sono sempre stato
attratto dai culi. Dalle movenze delle natiche. “Quant’è bella la donna
mia quand’ella il suo cul vacilla”. Le movenze dei sederi dentro le djel-
laba sono languida poesia.
Una volta in campagna, era sera, e allora non avevamo la luce elettrica,
si usava una sorta di lanterne a benzina. La casa era grande e con tante
stanze, per raccogliere tutti i famigliari e i bambini numerosi che ogni
estate si ritrovavano nella casa della nonna matriarca. Sono entrato in
una stanza e ho trovato una zia che faceva il bagno a una ragazzina
accolta in casa che aiutava nelle faccende in cambio di vitto, alloggio
e qualche regalo per la famiglia. Questa ragazzina era immersa in una
grande bacinella di zinco, in piedi, i capelli neri sciolti che arrivavano ai
fianchi, il seno piccolo e i capezzoli duri e scuri come l’aureola tutt’in-
torno. Giusto un attimo, un attimo e me ne andai o forse mi cacciarono
via. Ma questo corpo è rimasto fra le immagini che poi hanno plasmato
la mia idea di femminilità.
Da bambino andavo ogni settimana all’hammam con la mamma. Quin-
di ne devo aver visti di corpi femminili nudi. La trasferte all’hammam
femminile sono durate credo finché altre donne hanno cominciato a
fare alla mamma rimostranze sempre più insistenti sul fatto che ormai il
bambino fosse grandicello, un ometto ormai. Così una domenica sono
dovuto andare all’hammam con papà, in quello dei maschi. Eppure
non ho un ricordo specifico dell’esperienza nell’hammam femminile.
Ho un’idea annebbiata come lo sono le sale vaporose degli hammam.
Forse il nero dei pubi, braccia nude, culi adiposi… ma non ne sono
sicuro… mi devo sforzare per richiamare queste immagini e chissà se
attingo alla mia esperienza vissuta o al vissuto collettivo di tante gene-
razioni di ragazzini marocchini.
Più o meno credo sia questa l’idea di donna che ha nutrito i miei sogni
erotici di ragazzino e di giovane maschio. Giovane maschio intendo dai
vent’anni in su. L’età della mia immigrazione. E qui tocchiamo un tasto
dolente: l’integrazione sessuale di un giovane immigrato. Continue reading

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I cani

cane
Per il centro storico giovani coppie passeggiano mano nella mano sfoggiando sorrisi oltremodo luminosi. Stando al calendario infatti è quasi primavera. Ciò non toglie che l’inverno è ancora lì, nelle sciarpe che ancora tutti indossano ben serrate al petto e al collo. Questa allegria un po’ forzata è trasmessa anche ai tanti cagnolini al seguito. Che poi al seguito non è l’espressione corretta: a me pare che i cani stiano sempre qualche passo avanti, o al limite di fianco ai loro padroni. Per lo più cuccioli. Belli, puliti e soffici. Molti di razza e qualche bastardino. Bastardino? E che ne so io. Magari quelli che io chiamo così sono di qualche razza a me sconosciuta. E poi basta con questo razzismo. Tutti i cani sono uguali ed esiste un’unica razza: quella canina. Mi colpisce questa nutrita e variegata presenza dei migliori amici dell’uomo, che avrebbe un suo senso solo se fossimo nel pieno di qualche manifestazione canina (gare di bellezza e simili). Cani vecchi non ne vedo. Pochi bambini. Molte ragazzine. Belle signore mature. I soliti gruppuscoli di pensionati dislocati nei punti più strategici della passeggiata lungo il viale principale: vicino all’edicola, nei dipressi delle bacheche degli annunci funebri, all’imbocco degli snodi da cui fluiscono e defluiscono i passeggianti. Una famigliola formato da lui, lei e una coppia di cuccioli levrieri identici.

A rendere ancora più lieto questo quadretto è la mancanza di cani notoriamente temibili tipo doberman o rotweiller. Forse i loro padroni, giovani palestrati e tatuali, aspettano il buio della sera per portarli a spasso. Ho come l’impressione che i giovani più trendy abbiano per ogni occasione il cane adatto. A grandi linee la norma dovrebbe essere che per le ore diurne e per i centri storici è preferibile sfoggiare cani di piccola taglia o tascabili che dir si voglia. Poi magari avranno anche quello più consono per le gite fuori porta. Uno per la barca a vela. Uno, particolarmente docile, per quando si va a trovare la nonna. Uno per andare a caccia. Uno per fare footing. I più sportivi avranno anche un cane da slalom fra le macchine mentre con una mano tengono il manubrio della mountain bike e con l’altra il guinzaglio del cane che corre con la lingua di fuori. Uno o due da lasciare liberi nel giardino di casa per allontanare i malintenzionati.
Insomma ormai c’è una tale abbondanza di cani che non c’è che l’imbarazzo della scelta per quando arriva il momento di abbandonarne qualcuno in autostrada (stando ai tg, è prassi molto diffusa). Solo che i selezionatori non devono ancora aver messo a punto una razza apposita per questa incombenza. E allora i ragazzi trendy che devono fare poveretti? S’arrangiano con quel che hanno, senza peraltro stare tanto a badare al pedigree.

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Una bella moschea per Salvini

Grazie a Salvini si ritorna a parlare della presenza delle moschee in Italia. Da come se ne parla, sembra che in questo campo le dimesioni contino molto. Infatti i giornali non mancano mai di sottolinearne l’ordine di grandezza: apprendiamo così che la moschea di Ravenna è la terza più grande d’Italia; quella di Roma, la più grande in assoluto; e pure le altre in via di edificazione altrove, fanno sapere anche i diretti interessati, in quanto a grandezza non avranno nulla da invidiare alle altre.
Non sarebbe male venire a sapere di qualche comunità di musulmani, foss’anche di qualche sperduto borgo italico, alle prese invece con la ferma decisione di costruire la moschea più bella d’Italia.
Vorrei questo un po’ perchè sono convinto che l’intensità o meno della fede non ha niente a che vedere con la metratura dei relativi luoghi di culto, e un po’, anzi soprattutto, per godermi, che Dio mi perdoni, l’iraconda reazione del fratello Salvini al richiamo della bellezza: che per simili orecchie, com’è noto, risuona molto più minaccioso di quello del Muezzin.

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Renzi, il televenditore con le slide

Le notti televisive sono popolate da venditori di tutte le risme. Puoi trovare le ragazze succinte che mostrano quello che presumono essere il meglio di sè nella speranza che qualche sonnambulo abbocchi e alzi la cornetta. Così come puoi trovare molti altri generi di televenditori: si va dagli orologi ai tappeti, ai vari attrezzi per la cucina e per tutte le necessità domestiche. Dai quadri ad altri oggetti d’arte. Senza dimenticare le maghe e le fattuchiere. Detto tra perentesi, personalmente ho un debole per i venditori di idropulitrici.
Queste genere di televisione ha dato agli annali anche personaggi di tutto rispetto, del calibro per intenderci di Vanna Marchi e di Roberto detto il Baffo.
Lavorando di zapping, c’è da dire che i televenditori non operano solo a tarda notte. Sono molto attivi anche di giorno: vedi la Permaflex ad esempio. Solo che di notte, uno magari non ha la piena padronanza di sè e questo senz’altro rende più agevole rifilare qualche patacca.
Ebbene. La presentazione televisiva da parte di Renzi del suo Jobs Act mi ha fatto lo stesso effetto. Guardandolo e ascoltandolo mi è sembrato avesse la stessa disinvoltura, lo stesso savoir faire, la stessa mimica, lo stesso look… in una parola la stessa classe dei televenditori di idropulitrici. Solo un tantino più autorevole per via delle slide.

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