Shahrazad

Il suo profilo emana un tempo che è vortice di ricordi, paure e speranze. Questo tempo è un attimo, e quest’attimo è adesso. Adesso lei è al posto di guida, io dal lato passeggeri che guardo dal finestrino le nuvole gonfie di marzo. Siamo parcheggiati al lungomare: c’è gente a fare footing, a portare a spasso il cane, a camminare a passo salutista. E gli amanti sono appartati nelle loro utilitarie. Ma il mio attimo non ha niente a che vedere con questo borghesume in cui sono immerso. L’attimo che sto vivendo non ha nulla a che vedere nemmeno con questo arcobaleno che fa capolino dal fondo dell’orizzonte: sorriso sguaiato dai colori sgargianti che squarcia il cielo e mi indispone. Irrompe indiscreto nel flusso dei miei pensieri distraendomi dal profilo di lei.
Lei è Shahrazad. Sì proprio lei, quella dalle mille e una notte. L’ho incontrata in una giornata d’agosto. Lei era la barista ed ad aiutarla dietro il bancone c’era suo marito. Un uomo piccolo dallo sguardo buono e triste. Sharahrazad non gli rivolge mai la parola. Lei aveva occhi che brillavano di notturni intrighi ed erano tutti per me.
Sono un uomo fortunato. Ho ordinato un cappuccino e brioche e ho compatito l’uomo che le stava a fianco. Mi sono lasciato andare alla voluttà del divanetto messo in un angolo del bar. L’arredo aveva l’eleganza delle tende beduine…una piccola libreria ben fornita, non alta, di legno… uno specchio incorniciato con minerali di varia forma e natura… tappeti dappertutto …tavolini bassi e arabescati; un paio di statuette all’altezza dei tavoli.
Tutto era morbido e nostalgico. La nostalgia era anche negli occhi di lui, tristi che invano sembravano cercare nella segreta trama che legava fra di loro i vari pezzi d’arredo uno scorcio di dimora che non fosse precario. La “trama segreta” era un’attesa su cui lui doveva vegliare. Quest’attesa è la loro complicità. In quest’attesa germogliavano e maturavano le storie che Saharazad un giorno avrebbe raccontato. Questo è scritto nel destino e loro attendevano come le pecore brucano e il sole sorge.
Entrando in questo bar, a chi non ha occhi per vedere Sahrazad, ecco cosa appare: una ragazza non più ragazza e non ancora signora, dalla camminata svelta e il corpo snello. Non italiana.Sia lei che suo marito provengo da un paese orientale. Una coppia di immigrati, quindi. Anche quando avranno finito di raccontare la loro storia, l’unica cosa che si serberà è l’immagine di una coppia dignitosa, mediamente colta con velleità artistiche sfuggita per motivi politici da un paese orientale e rifugiatasi in Italia.
Ora caro lettore tu sei uno che legge. Hai uno spirito critico. Sei uno che cerca di essere aggiornato, magari sei anche laureato. Il fatto stesso che mi stai leggendo vuol dire che hai gusti sofisticati. Non sei certo il tipo che si abbindolare dai titoli allarmistici dei media. Sei uno insomma che s’illude di essere l’artefice della propria percezione del mondo. Eppure, mi duole dirlo, sei il prodotto di una civiltà dell’immagine.Chissà quanti arcobaleni disturbano il corso dei tuoi pensieri . Non è certo colpa tua, lo so …anzi sarei presuntuoso se pretendessi da te, come è capitato a me, di scorgere sotto le vesti di questa gentile barista addirittura Shahrazad. Forse io ci riesco perchè anch’io sono un immigrato.
Noi due, io e te caro lettore, facciamo fatica a capirci. Qualcosa però mi dice che tu sei ben disposto. A ben vedere c’è una cosa che noi due abbiamo in comune ed è che anche tu sei assetato di storie. Ascolta. Il fatto è che sin dall’infanzia mi son nutrito di sole e di vento. Ho avuto per maestro un saggio carrubo. Nel mio paese (che non ti dico perchè non gli sovrapponga una delle tue immagini da Alpitour, o peggio ancora …) il sole batte forte, l’amicizia è un carrubo che mentre di dona la sua ombra le sue foglie gioiscono con un lieve tremito.
Francamente io credo, caro mio amico infarcito di immagini, tu Sahhrazad non potrai mai scorgerla in nessuna donna. La sua sensualità ti è preclusa per sempre.
Quando probabilmente tu andavi all’asilo nido a giocare coi lego, io andavo alla scuola coronica. E non mi ci accompagnava certo babbo o mamma in macchina. Ci andavo a dorso d’asino. La mia scuola era una stanza bianca con davanti un albero di fico. Era una costruzione in mezzo a un terreno brullo e sassoso. Sotto i sassi avevano dimora i serpenti e le vipere. Non avevamo quaderni ma tavolette di legno levigate. Niente penne ma calami di bambù da intingere nell’inchiostro. Non c’erano immagini da illustrare né c’era un senso da capire. Imparavamo che l’arabo era la lingua del Corano, le cui lettere forgiavano la memoria nell’argilla, nell’inchiostro e nel sole.
Questa per me, caro lettore è la sensualità. E’ il profumo e la sinuosità civettuola di lettere arabe incise con l’inchiostro nell’argilla. Le notti di Shahrazad sono nere come l’inchiostro della mia infanzia. Un fiume d’inchiostro che galoppa nel buio della memoria. Shahrazad non è un’immagine. Shahrazad è un profilo che è vortice di ricordi, paure e speranze.
Me la sto prendendo con te, caro lettore, ma tu non c’entri niente. E’ tutta colpa dell’arcobaleno, che prima mi ha distratto dal profilo di lei, e ora mi fa litigare con te.

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L’intercultura dello spettacolo

Fra le tante attività che gli italiani non vogliono più fare ora c’è anche la cultura. Cca nisciun è fess: “con la cultura non si mangia”. La gente del posto non vuole più avercene a che fare, un po’ come succede per la raccolta delle arance. Che se non fosse per gli stranieri ora gli italiani soffrirebbero tutti di carenza di vitamina C, e sarebbero ancor più scorbutici di quanto non lo siano già per via della crisi. Insomma, anche stavolta tocca agli stranieri metterci una pezza. Ce n’è per tutti i gusti: chi si dà alla prosa, chi alla poesia, chi fa l’editore, chi organizza festival. Chi canta e chi suona. Di recente ho scoperto che c’è perfino un ragazzo marocchino che fa il prestigiatore.
D’altronde se la cultura è arte gli stranieri per forza di cose sono un po’ tutti artisti ( l’arte di arrangiarsi).
Sempre a proposito di cultura e di arte, quelli più scafati sono i cosiddetti ” 2G ( seconde generazioni). Questi più che di darsi alla cultura in senso stretto (cioè quello più polveroso del termine), preferiscono la scorciatoia della pop cultura detta anche showbiz. Molto ambito in questo senso è il Grande Fratello. Che sempre più vede fra i suoi più agguerriti aspiranti concorrenti propri gli italiani di recente acquisizione. Riuscendo fra l’altro a non sfigurare e anzi addirittura una volta ad aggiudicarsi il gradino più alto del podio con Ferdi Berisa, ragazzo di origini rom. Nella sua edizione attuale, il Grande Fratello, registra per la seconda volta nella sua ormai più che decennale storia la presenza di un nero ragazzo gieffino. E non mi si venga a dire che certa televisione non è cultura. Anche perchè non saprei cosa ribattere se non che : tutto è cultura, e che qui il termine è considerato nella sua accezione non aristocratica ma quella più vasta e includente, che dà cioè egual dignità alla alta, media e bassa cultura, da qualunque parte del mondo provenga. Senza disdegnare nemmeno il kitsch gratronomico. GLi stranieri, dopo aver dato il meglio di sè fra fornelli e lastoviglie di tutte le cucine degli alberghi e ristoranti d’Italia ora fanno buona audience anche nel rinomato format MasterChef. E se per i comuni mortali il nome Rachida (cuoca marocchina) non dice niente, per il popolo del web è una cliccatissima star.
La cultura è un ambiente molto vasto e questo post è solo per dare un’idea della presenza degli stranieri via via più consistente anche in questo dominio. Più che un post servirebbe uno studio con tutti i crismi per valutare la portata effettiva di questo nascente fenomeno. Incombenza questa che esula ovviamente dalle pur non modeste ambizioni di questo blog (fare da vigile sentinella a quanto di nuovo si muove in ambito interculturale). La cultura dello spettacolo ora può dirsi anche intercultura dello spettacolo. Italiani o no, the show must go on.

http://youtu.be/-qwLJOKWVMU

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Il divano non è un luogo comune

(a questo mio vecchio racconto sono particolarmente affezionato anche perchè praticamente segna l’inizio della mia attività scribacchina)

Durante la mia lunga carriera di studente squattrinato fuorisede, fuoricorso e forse anche un po’fuori di testa, più d’una volta mi son trovato nella necessità di dovere chiedere ospitalità ad amici e conoscenti. Non che avessi difficoltà a trovare casa, è che facevo fatica a tenermele e dopo qualche tempo venivo regolarmente sfrattato.

Deve essere durante questo periodo, io credo, che ho sviluppato una spiccata sensibilità per i divani, nei confronti dei quali nutro tuttora un profondo sentimento di riconoscenza.

Ma messa in questi termini la questione può apparire molto più prosaica di quanto, in effetti, non lo sia.

In realtà l’idea che col tempo sono andato facendomi del divano esula decisamente dal tipico sguardo estetizzante o dal pratico utilizzo con cui di solito si usa abbracciare ed accomunare indifferentemente tutta la mobilia.

Insomma, per me il divano è una materia dello spirito e non c’è comodino o credenza che possano reggere al confronto.

Il divano non è un luogo comune. Continue reading

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Il gene delle posate

È il pomeriggio di una bella giornata di sole. Sono in cucina. Dalla finestra un vorticoso pulviscolo si dirige verso il lavandino illuminando un cestello di posate. Queste lo accolgono accendendosi di vita propria, come fossero fiori.
Altre rare volte avevo colto questa vita segreta delle posate. Ma questa volta era palese che le posate – le forchette soprattutto – non sono solo quelli oggetti inanimati che pensiamo.

Quando la luce è propizia (evidentemente devono concorrere contemporaneamente anche molti altri fattori, fra cui credo lo stato d’animo del visitatore della cucina, la stagione, la temperatura, il tasso d’umidità, la composizione chimica e la forma delle posate stesse, la qualità del silenzio nella cucina, la presenza o meno di animali domestici nella casa, gli incontri avuti dalla luce lungo la strada che ha dovuto percorrere fra gli astri per giungere fin qui sul mio lavandino, e chissà quante altre cose!), quando la luce è propizia le forchette oltre a mostrarsi come cosa viva, possono lasciar trapelare anche un certo surplus di vivacità, una briosa allegria, un incarnato particolarmente splendente.
Lo so che gli scettici stanno pensando a questo vivido luccichio delle posate come dovuto semplicemente all’effetto di una lavastoviglie efficiente, opportunamente coadiuvata da ottimo detersivo e brillantante. Spiritosi.

Il fatto è che avete troppa confidenza con le posate, siete talmente abituati ad averci a che fare che nemmeno le notate più. Per me non è così.
Io e le forchette ci frequentiamo da molti anni, ma non da sempre, è solo da quando sono in Italia che ho un rapporto quotidiano con loro. Invece, chissà perché, ho sempre trovato naturalissimo usare il cucchiao per mangiare il cous cous invece delle mani nude. A casa mia, in Marocco, lo sapevano e quindi non c’era nessun problema. Invece quand’eravamo ospiti avevo sempre un attimo d’imbarazzo al momento del cous cous per via del fatto che dovevano portare un cucchiaio appositamente per me.

Credo però che questa particolare senisibilità per le posate non derivi solo dal mio particolare retaggio culturale: deve essere una cosa ereditaria. Penso questo per via di mia figlia, che per quanto sia nata e cresciuta in Italia sono anni che a tavola usa, per tutti i cibi tranne quelli liquidi, due bacchette di legno. Eppure l’unico contatto con l’oriente che abbiamo è quello saltuario che ormai tutti hanno con le rosticcerie cinesi sotto casa.
Ogni giorno gli scienziati scoprono qualche nuovo gene. Sembra ormai chiaro che per ogni nostra attitudine ci sia un relativo gene: c’è quello per l’abilità matematica, quello per l’aggressività, quello per l’orientamento nello spazio, quello per il tradimento ecc. Non è quindi da escludere che ci possa essere anche un gene che fa sì che si usino le mani al posto delle posate, o che si preferiscano le bacchette rispetto al coltello e alla forchetta. In ogni caso, almeno nel caso mio, questo gene deve subire delle mutazioni di generazione in generazione. Chissà con l’ausilio di quale arnese si ciberanno i mei nipoti…

(dalla mia rubrica su Escamontage)

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La retecrazia

Grillo, il re blogger, passerà alla storia per l’invenzione della retecrazia. Che a differenza della democrazia, non è il governo del popolo ma del populo. Così anche i cori da stadio, le voci di corridoio, gli schiamazzi delle folle, l’esercito 2.0 dei nickname ed altri simili rumors (tutto ciò insomma che ora chiamiamo “la rete”), hanno trovato finalmente una loro spendibilità politica.
Quel che un tempo era considerato, dai politici con la puzza sotto il naso, come rifuto, scarto di digestione destinato alle acque nere, ora è un ragguardevole patrimonio politico nelle mani della premia ditta Grillo&Casaleggio. D’altronde riciclare è la parola d’ordine in tempi di crisi. Qualcuno ha detto che dai diamanti non nasce niente mentre dal letame nascono i fiori. Altri sostengono che a pestarla porti fortuna. Noi ci limitiamo a constatare che in effetti Grillo è un uomo molto fortunato.

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Vittima e carnefice

articolo
Vittima e carnefice. Questo, a volte, si prova a fare il giornalista essendo un immigrato. Intanto una precisazione: “fare il giornalista” mi sembra un’affermazione un po’ troppo pretenziosa. Ci si prova, ecco.
Ma perchè vittima e carnefice? La riposta sta nelle parole, e fra le righe, di questo bel pezzo di Franco Bomprezzi.
Nella sue duplice veste di portatore d’handicap e giornalista, spesso alcuni suoi colleghi normodotati lo contattano alla ricerca di “una bella storia“.
In che senso una bella storia?
Beh, insomma… ci vorrebbe uno giusto, cioè… chiuso in casa da anni, ma combattivo, che si muove però da solo quando è in esterni (sai, per le riprese è meglio…) e poi con una storia familiare un po’ pesante, ma lui deve parlare bene, altrimenti non ci stiamo con i tempi, il servizio durerà i classici due minuti, che è già tanto, tu mi capisci…”
Anche a me, nel mio piccolo, mi capita di essere interpellato, ad esempio, per scovare storie di qualche immigrato alle prese con il “problema casa”. Il soggetto ideale, mi si fa capire, deve essere prossimo alla sfratto, la casa deve essere una catapecchia umida, le macchie di umidità devono essere grandi e ben visibili, l’immigrato sfrattando deve essere un capo famiglia dalla prole numerosa, disoccupato cronico, la moglie deve aver dato da poco al mondo due gemelli ed essere in evidente stato di una nuova gravidanza. E soprattutto tutta la famiglia così conciata deve essere disponibilissima a farsi fotografare e raccontarsi ai microfoni con la tutta la necessaria dovizia di particolari. Altro? sì, deve parlare fluentemente la nostra lingua.

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Si fa presto a dire kebab

Abbiamo un ex ministro di origini congolesi e un deputato di origini marocchine. Abbiamo scrittori delle più diversificate origini. Lo stesso dicasi per nuovi editori e direttori di svariati festival. Da poco, in questo fenomeno di mobilità sociale verso l’alto dei “nuovi italiani”, si è inserito anche il primo avvocato di pelle nera iscritto all’ordine in Italia.
Certo, parliamo di casi sporadici e siamo ben lontani, tanto per fare un paragone, dai risultati ottenuti dalle minoranze etniche degli Stati Uniti d’America. Ci informa Federico Rampini, in un articolo apparso recentemente su Repubblica dal titolo Etnopower la riconquista dell’America, che, per esempio, Il reddito degli indiani è il doppio di quello dell’americano medio: 90.000 dollari l’anno contro 50.000. Lo stesso articolo dà notizia dell’imminente uscita di uno studio condotto da due docenti della Yale Univesity (Amy Chua e Jed Rubenfeld) da cui trae un’ipotesi sul motivo di cotanto successo che, secondo i due studiosi, sarebbe dovuto a questa tripletta caratteriale: complesso di superiorità, insicurezza profonda, spirito di sacrificio. Tesi questa alquanto provocatoria, tanto da sollevare un vespaio di polemiche sino all’accusa di “razzismo all’incontrario”.
Qui in Italia, come si diceva, il fenomeno dell’etnopower è ancora agli albori. Ma il trend è segnato e i dati (fonte Censis) parlano chiaro: 379.584 gli imprenditori stranieri che lavorano in Italia: +16,5% tra il 2009 e il 2012, +4,4% solo nell’ultimo anno. Rappresentano l’11,2% del Pil dell’Italia, versano nelle casse dell’INPS 10 miliardi di euro l’anno e 3 milioni di italiani lavorano per loro (fonte Unioncamere).
Prendiamo nota: gli italiani di nuovo conio, non senza inciampi e ostacoli, stanno affrontando la lunga e ripida scalinata della promozione sociale, alla cui sommità fino a ieri avevano esclusivo accesso solo pochi italiani doc. C’è da aggiungere che i figli d’immigrati non sono gli unici a godere dei vantaggi della propria temeraria vivacità, a giovarsene è l’Italia tutta. Quest’Italia ormai veneranda, dove gli over 65 rappresentano il 20% della popolazione, ha estremo bisogno di una bella iniezione di dinamismo.

Ma dopo questa sfilza di dati quel che ci vuole è una bella storia. Perché i dati, per quanto molto utili a restituirci il quadro della situazione, hanno un grave difetto: sono poco empatici.

Invece Islam Shafiqul ispira subito simpatia. E’ un giovanotto del Bangladesh di 31 anni, gli ultimi 8 dei quali passati a Senigallia. Dopo svariati lavori e lavoretti come operaio da poco ha deciso di fare il salto mettendosi in proprio con una kebabberia. Nel video che segue ci racconta della sua personale scalata sociale. Del suo piccolo sogno che si sta realizzando. Nulla di clamoroso, per carità. Non è certo questo uno di quei casi di imberbi divenuti miliardari dall’oggi all’indomani inventandosi una “app.”. I sogni hollywodiani lasciamoli al grande schermo. L’etnopower è un processo di lungo respiro, non è proibito sognare, ma i sogni, prima di farli librare, meglio passarli al vaglio di un sano pragmatismo.
Anche un po’ di leggerezza e d’ironia non guastano. Come vedrete si scherza e si gioca. E’ lo stile di kebab houseGent’d’S’nigaja from the Worl, progetto che condivido con gli amici di Gent’d’S’nigaja, pagina Facebook che si occupa di dialetto e cose senigalliesi. Si gioca all’integrazione già nel mentre si fa l’intervista o, se si preferisce, si gioca a fare un’intervista nel mentre si pratica l’integrazione.
http://youtu.be/RHSHsn3WulQ

(Fonte: Prospettive Altre)

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Ritratto di famiglia senza cane

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Al primo colpo d’occhio sembra la tavolozza di un eccentrico pittore. Ma potrebbe sembrare anche il ritratto di qualche casata di non antica nobiltà, ancora bisognosa di affinare i gusti in quanto ad abbigliamento e accostamento di colori. Ci fosse anche un cagnolino quest’impressione ne uscirebbe ancor più rafforzata,.
A spiccare sono Re Giorgio nella sua alta uniforme di capo cerimoniere, giulivo e ben disposto a godersi l’improvvisa virata matronale delle sorti democratiche del Paese. Per il resto non passano inosservate nemmeno le altre macchie color pastello delle altre neoministre.
La foto che abbiamo dinnanzi lascia un po’ scorcertati per lo scarto cromatico rispetto a quello consueto in simili circostanze. Ma appunto per questo è figlia del suo temo: é moderna. Una modernità, diciamo così, tutta gastronomica; più precisamente di quel ramo della pasticceria chiamato cake design, arte impegnata ad allietare più gli occhi che i palati dei gourmet.
Al cospetto del blu elettrico della ministra Maria Elena Boschi si rimane però pittosto sconcertati. Il look è di quelli estremi. Mai si era osato cromaticamente così tanto in simili contesti. Un pugno nell’occhio. Il momento, poi, della firma è a dir poco vertiginoso per via dei tacchi spropositati e anche per la sfrontata esibizione del perfetto lato B.
Così dopo i governi dei politicanti, quello targato Mediaset, quello dei tecnici, ora ci ritroviamo con questo nuovo capeggiato da Renzi al quale si fatica ad apporre una chiara etichetta.
Nel frattempo, e per l’intanto, prendiamo nota di quel che vediamo, aiutandoci da quanto giornali e tv ci dicono e ci mostrano.
Sono giovani, sono provinciali (provengono tutti da piccoli paesi) sono per metà donne. Da buoni cattolici la domenica vanno a messa. Verrebbe da dire che son borghesi.
Danno sempre l’impressione di essere agghindati per qualche festa. Non v’è dubbio che festoso è, e parecchio, il blu elettrico del ministro per riforme costituzionali e pe i rapporti con il parlamento.
Ma guardiamola ancora questa foto. Tanti giri di perle. Una giovine incinta. Tutti con l’aria di chi si sforza di mantenere un contegno greve quanto la circostanza richiede, ma che non riesce a non far trasparire la contentezza per il colpo di fortuna ricevuto. Un po’ come se fossero al capezzale di un lontano parente che del tutto inaspettamente si è ricordato molto generosamente di loro nel testamento. Sono ben consci della botta di culo e fanno fatica a fingere un minimo di compassione. L’unico che sia nell’aspetto che nei modi aveva la faccia da funerale è Letta. Ma questa festa infatti non lo riguarda, se non nella misura in cui gli è stata fatta. Anzi, forse è lui il caro estinto.

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Il giorno che sei diventato poeta

in questo pomeriggio che sa di pioggia
distenditi
prendi i ricordi uno ad uno
fallo teneremenete
torna a quand’eri bambino
e camminavi sulla terra
e guardavi il cielo
torna a quell’atrio
quando hai scoperto che l’attesa
era un’assenza
al tempo in cui l’ombrello
ti era d’impiccio
ma non sempre pioveva
ti ricordi quel campo
la ragazzina con le treccine
aveva preso una spiga
te ne aveva messo i chicchi nel palmo della mano
a quando parlavi con i sassi
e ridevi insieme al tuo cane
alla tortora che avevi ferito
te n’eri molto dispiaciuto
e hai scoperto che non eri un cacciatore
forse era quello il tempo
che sei diventato poeta.

distenditi, chiudi gli occhi
e ricorda
il primo giorno di scuola
la solitudine che provavi accanto al papà
forse era lì che sei diventato poeta
ricorda le vie dove hai camminato
ah quanto vie hai camminato
pensa alla gioia di quando di lì a poco avresti incontrato il tuo amico
a quando hai scoperto l’altro
nel viso rugoso e scuro del contadino
forse è stato quello il momento che sei diventato poeta
pensa ai primi versi
alla prima canzone che ti ha fatto piangere
ricorda le cose che qui per pudore non scrivi
che non sai ancora scrivere
ricordi? eri sempre un po’ distante
sempre ospite
sempre straniero
la gente dice che son fatti così i poeti
ricorda
la terra calda di sole
la terra scura di pioggia
il campo di grano
la tortora
l’attesa
l’assenza
ricordati
del giorno che sei divetato poeta.

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World Press Photo 2014: migranti nella notte

foto
(“Il fotografo statunitense John Stanmeyer ha vinto il World Press Photo 2014, con uno scatto che ritrae migranti africani in Gibuti alla luce della luna, mentre rivolgono i loro telefoni cellulari verso il cielo in cerca di segnale.”)

ll mare, una stella, display di cellulari accesi, profili di migranti. Questi gli attori; mentre il palcoscenico è la notte, illuminata da una luna che sembra un proiettore. Del mare vediamo solo la parte rischiarata dal fascio di luna. Anche il mare ha i riflessi di un monitor. I migranti sono sulla spiaggia i piedi quasi nell’acqua. Il mare riposa sornione. Ma è lì: un gigante addormentato che frappone a tutte le mete la sua mole imponente. I migranti alzano i loro telefonini alla luna. Sembrano intenti in qualche rito magico teso a ingraziarsi gli dei. Molto più prosaicamente, la didascalia della foto c’informa che stanno cercando di captare quel poco di segnale che arriva fin lì. Sarà! Ma se questa foto si è aggiudicata il World Press of the year 2013 è anche per l’alone di mistero che emana.
Per mettersi per mare innanzitutto ci vuole il beneplacido degli dei. Se questi danno l’ok non c’è passaporto, timbri o burocrazia che possano impedire il viaggio. è un rito per soli iniziati quello ritratto dalla foto. Noi non siamo ammessi. Questa volta i clandestini siamo noi con i nostri occhi indiscreti. La profanzione più grave, certo, è quella dell’autore dello scatto. Ma queto fa parte del mestiere: per far notizia non basta vendere l’anima al diavolo, a volte bisogna sfidare gli dei.
Sono dei bizzarri quelli che decidono le sorti dei naviganti. Basta un niente e possono tramutare quel mare che ora giace placido in un inferno di burrasche assassine. Teniamoci questa foto come cimelio ma per il futuro stiamo alla larga da simili riti. Il momento che cogliee è uno di quelli altrimenti destinati a rimanere segreti.
Togliamoci pure la curiosità, ma niente voyeurismo. Gli dei son fatti così, tengono molto alla privacy. Meglio non inimicarseli. Volgiamo lo sguardo altrove e auguriamo buona sorte ai migranti.

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