Deliziosa Munro

Munro
È un bel momento quello quando riesci a sposare a una sensazione l’aggettivo giusto. Deliziosa. Alice Munro è deliziosa. Questo di continuo pensavo leggendo questa sua intervista. Della Munro, a spizzichi e bocconi, avevo letto qualcosa, ed ero rimasto colpito dalla precisione con cui usava le parole. Il risultato è sempre una fotografia nitida, indipendentemente dall’oggetto preso in considerazione. Per raggiungere simili risultati bisogna avere una certa meticolosità di cui si è persa traccia.
Leggevo e nella parola risuonava l’eco di una persona gentile; il candore di una signora di 80 anni non corrotta dai facili entusiasmi mediatici.
Si avverte che le sue parole nascono nel silenzio. Lontane dalla cacofonia parolaia a cui siamo sottoposti noi lettori di blog e altri contenuti digitali. Tutti parimenti vacui, strillati, sciapi… Raffazzonati. Che se qualcosa dicono è l’inflazione della parola scritta. Siamo in tanti a scrivere ma mancano gli artigiani della parola. Manca la solitudine delle botteghe dove si fabbricavano manufatti di parole. Anche le cose buone, che ovviamente non mancano, se paragonate alle parole della Munro, mi paiono nel miglior dei casi roba da circensi.
Si cerca più che altro l’effetto; il numero. Succube della brevità, questo arco temporaneo concentrato, il gesto della scrittura è ridotto a esercizio ginnico. Per quanto possa essere brillante vi si legge in filigrana l’ansia da prestazione.
Quel che manca è una voce riconoscibile. Qualcosa che vada oltre una “firma”. Le “firme” si distinguono sì dal rumore di sottofondo, ma appunto in quanto firme, in quanto marchi riconoscibili, delle griffe insomma, portano in sè qualcosa di standarizzato tipico dei prodotti di largo consumo. Saranno anche di nicchia, ma sanno comunque di merce preconfezionata. Questo è per lo più quel che ci viene dato in pasto.
In un panorama siffatto ci vorrebbe un Carlo Petrini della parola scritta, qualcuno che sappia ancora discernere le buone parole, quelle genuine, non dopate e s’inventi un marchio di qualità sulla falsa riga del D.O.C. E magari ce li venda anche, queste selezionate parole, abbinate alla patate biologiche o, che so io, servite con le colazioni integrali degli agriturismi.
Chiede il giornalista alla Munro:
aveva mai pensato di vincere il Nobel?”
Risponde Munro:
«Oh, no, mai! Una donna!» e continua «questo onore mi fa felice, molto, ma non ci avevo mai pensato, forse perché gli scrittori tendono a sottovalutare il proprio lavoro, specie a cose fatte. Comunque non si va in giro a dire agli amici, sai, forse vincerò il premio Nobel. Si tende a non farlo».
Deliziosa.

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Gent’d’S’nigaja from the world

logo L’agorà non è più quella di una volta. E nemmeno la gente che vi si raduna è più la stessa. Sono vecchi concetti questi che andrebbero aggiornati con quanto di nuovo vi apportano le piazze virtuali e il popolo del web. Fare comunità insomma, per farla breve, passa anche attraverso i social network, facebook in primis. E se proprio non siamo del tutto accecati parlare di comunità vuol dire considerare anche gli stranieri che vi fanno parte. E magari pensare alla loro inclusione.
Ora prendete la macchinosa premessa di sopra, agitate bene il tutto ed eccovi fra le mani Gent’d’S’nigaja from the world. I ben accorti, notando l’insolito accostamento di dialetto senigalliese accanto al cosmopolita idioma inglese, avranno avvertito subito aria di glocal. Certo che sì, ma questa volta declinato – il glocal – all’integrazione. La cosa è semplice: si tratta di incontrare ogni tanto qualche straniero di Senigallia, farsi raccontare un po’ di lui e postare il tutto sulla pagina facebook Gent’d’S’nigaja.

Perchè l’intento, come dice Leonardo Barucca (l’uomo più saggio della riviera adriatica) è quello di: “…conoscere e capire un po’ di più la realtà dei senigalliesi più recenti. C’è una frase famosa di Lao Tzu che mi piace molto: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”, ecco: Gent’d’S’nigaja from the word vorremmo che fosse un piccolo microfono dentro la foresta, per sentirne meglio il suono mentre cresce.
Simone Tranquilly e Leonardo Barucca (i gestori della pagina insieme ad Andra Scaloni) mi hanno coinvolto in questa iniziativa e insieme abbiamo incontrato, dando così il via a Gent’d’S’nigaja from the world, Belbaji Mohamed, insegnante di arabo.

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Gli sdraiati

libro
L’eco biblica inevitabilmente risuona nelle parole “padre” e figlio”. Tale fardello etimologico, in epoca di relativismo etico, è diventato palesemente insostenibile. Perduta l’antica autorità/autorevolezza patriarcale e l’altrettanto vetusta devozione filiale, genitori e pargoli non sanno come rapportarsi gli uni agli altri. Così nell’attesa di un nuovo assetto lessicale che sia meno zavorrato di resposabilità ma anche meno sbracato di nomigloli tipo papi e derivati, non rimane che l’incomunicabilità.
Per Michele Serra, questa incomunicabilità non è soltanto una tipica questione generazionale. Siamo invece, sospetta l’autore, dinnanzi a un salto darwiniano. Che ha prodotto Gli sdraiati – da cui il titolo del suo nuovo libro. Dove l’autore prorompe in un dissacrante e affettuoso rimprovero rivolto a un esemplare di questa nuova specie con cui gli tocca convivere: suo figlio. E si ritrova ad aggirarsi per casa con fare da antropologo, prendendo nota delle peculiari caratteristiche di questa inedita forma vivente e ce ne fornisce qualche ragguaglio.
Intanto come suggerisce il titolo, essi vivono quasi sempre da sdraitai. Il loro habitat è il divano. La loro attività è il multitasking. Si tatuano. E fanno anche altre cose inspiegabili come portare la visiera del cappello calata sulla nuca…
Leggendolo, questo libro, si ride molto e ci si commuove anche. Finito di leggerlo ti viene da ringraziare personalmente l’autore e forse anche di offrirgli un caffè. Non ultimo per averti riconciliato coi libri. Che non è roba da poco visto che son tempi da Masterpiece e Fabio Volo. E si fa fatica a distinguere le librerie, tanto è il predominio della gastronomia, dalle trattorie.

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Masterpiece

Masterpiece, il reality sulla scrittura, per fortuna non ha niente a che vedere con la scrittura. Almeno per ora. La scrittura è qualcosa, come ha detto una delle concorrenti, di privato, come fare la pipì. Temevo che Masterpiece finisse per banalizzare la scrittura, invece è successo solo che ha ridicolizzato gli scrittori che vi hanno partecipato. Vedere degli scrittori sottoporsi al tranciante sì o no della giuria è stato doloroso. Questi giudici messì lì ad affermare o negare l’esistenza del talento! Come se il talento fosse riducibile ad una sentenza di condanna o di assoluzione, al venire bocciati o all’essere promossi. Come se il talento fosse un merito. Invece il talento è solo un dono. Una grazia. Bisogna portarlo con un certo imbarazzo e molta umiltà ed essere grati agli dei (o a chi per essi) per averlo infuso proprio in noi. La scrittura è un gesto che prescinde dalla fisicità del suo autore. Io scrivo, poi tu, se ne avrai voglia, in un secondo tempo, mi leggi. Chi gode del mio gesto non ha alcun bisogno della mia presenza. Scrivere è perciò il gesto meno televisivo che ci possa essere. Se proprio ci incaponiamo a volerlo vedere rischiamo di perderlo del tutto. Come è successo a Psiche con Amore. Scrivere è un gesto segreto e tale deve rimanere. Si può parlare di scrittura, possiamo far parlare gli autori, si può parlare di libri, ma la scrittura, il gesto della scrittura è qualcosa di connaturato al mistero. Fare un reality sulla scrittura è come fare un reality sul gesto di passeggiare. Quale giuria mai sarà capace di dire che Tizio passeggia meglio di Caio. Non è possibile. Scrivere come passeggiare è gesto che si nutre del caso. Il caso è quella cosa per cui, mentre guardi la televisione, leggiucchi anche un pezzo sulla Domenica del Sole 24 ore scritto da Sciascia e per qualche motivo ti colpisce il fatto che Sciascia citi Frank Capra. Intanto su Masterpiece senti che uno dei concorrenti legge un suo pezzo e, anche lui, nomina proprio Frank Capra. Perciò a me è andata bene: ho guardato Masterpiece e ora mi ritrovo con Frank Capra. Il caso mi è stato amico. E non ho nessuna intenzione di forzarlo. Alla prossima puntata di Masterpiece io non ci sarò. Se volete, provateci voi. Buona fortuna.

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Enea Discepoli, mediattivista ante litteram

Enea Discepoli, mediattivista ante litteram

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Il “cordone” di Lampedusa

Ho un’immagine, a proposito dei tanti naufraghi di questi giorni, che credo mi accompagnerà ancora a lungo, riaffiorando ogni volta che leggerò, scriverò o sentirò parlare di immigrati. L’immagine è quella di un cordone ombelicale che fluttua in qualche profondità acquosa del mare di Sicilia.

È questa l’immagine che la mia mente ha scelto di serbare dai tanti racconti succedutesi questi giorni e che parlano dei recuperi dei cadaveri causati dei naufragi di ottobre alle porte di Lampedusa. Fra i tanti morti senza nome e senza storia, si è data anche la notizia del recupero di una mamma e del suo neonato ancora legati dal cordone ombelicale. Penso a quella piccola creatura che è passata direttamente dal liquido amniotico all’acqua del mare. Penso a quella mamma, alla vita e alla morte che diventano un tutt’uno con l’acqua. Penso che non è ancora finita la conta dei corpi da recuperare e già si ha notizia di un altro naufragio. Ma son tutti pensieri subacquei, senza audio e con l’immagine del cordone ombelicale che continua a fluttuare. Quest’immagine in qualche modo che non so spiegarmi mi rasserena. Sarà che il cordone ombelicale è un potente simbolo di vita, a cui la mia mente si aggrappa per non vedere in quel lembo di mare che separa l’africa dall’Europa solo un cimitero. Non un cimitero quindi ma un cordone ombelicale, che lega la tragedia alla speranza.

Accanto a quest’immagine, un solo suono, di tanto in tanto, riecheggia minaccioso. Ed è il suono che formano questi due nomi messi assieme: Bossi-Fini. È una questione d’istinto. Si possono fare tutti i distinguo del caso ma così come visceralmente l’immagine del cordone ombelicale mi rasserena, il suono “Bossi-Fini” mi incupisce, mi preoccupa, lo lego alla sorte dei morti naufragati. Che poi se ci penso, non è un semplice suono: Bossi e Fini. Sono i nomi di due politici in carne ed ossa. E saranno per sempre, al di à delle effettive responsabilità, legati indissolubilmente a queste tragedie del mare.

Quando in televisione o sui giornali vedo chi ancora si ostina a difendere le ragioni della Bossi-Fini non solo penso a come sia forte l’istinto alla vita, ma anche alla potenza dell’istinto di morte. C’è vita che dall’Africa e da altri posti del mondo cerca vita ed è obbligata a transitare dal canale di Sicilia. C’è chi per quanto è possibile aiuta questa vita a non morire. E c’è chi è completamente indifferente se non ostile. La mia povera mente ha riassunto tutto ciò con, da una parte, l’immagine del cordone ombelicale che mi rasserena, e dall’altra, col suono sinistro che fanno messi insieme i nomi Bossi – Fini. La mia mente, lo confesso, non è granché come regista. Di tutta questa storia di morti annegati ha tratto un pessimo film. Nei film dozzinali però i buoni hanno sempre la meglio sui Bossi-Fini. Vedremo come andrà a finire. Intanto si continua a morire nel canale di Sicilia. E all’orizzonte non si intravede la scritta The End.
( questo è il primo post della mia rubrica Ex-Stra su escamontage)

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Lo djembè

imgVoi Pensate che lo djembè sia uno strumento musicale? In parte lo è. Ma lo djembè, diciamo, è soprattutto un catalizzatore del meticciato. Ah si! Per via dello djembè fra non molto gli italiani saranno tutti caffèlatte.
Vi sarete certamente imbattuti in uno di quei volantini che pubblicizzano eventi per l’intercultura, la multietnicità, pro Africa… poveretti, quest’immigrati si devon pur integrare. ll volantino che c’interessa di solito ha ben visibile la parola Africa e vi predominano il verde, il giallo e il rosso. Occhio, non è un semplice volantino! è la quiete prima della tempesta: quella ormonale. Stiano dunque all’erta le ragazze in fiore, le signore annoiate di mezz’età e più in generale tutte coloro con i sensi non ancora in riposo. Il nostro volantino dai colori sgargianti ritrae baldi giovanotti neri come il peccato, sorridenti e spensierati, con le treccine, denti bianchissimi e muscoli guizzanti. Uno di questi giovanotti tiene ben saldo fra le gambe il suo djembè. Difficle resistere al suo richiamo. Qualcosa di vivo e vitale risuona dalle parti dello djembè. A questo punto la ragazza con il volantino in mano, guarda il compagno pallido e poi lo djembè e il fustacchione che lo tiene fra le gambe. Non c’è partita.
Caro, m’iscrivo a questo corso di djembè e di ballo africano. Non sai cos’è lo djembè? Vabbè, non importa… io vado.

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Forza Italia,vive la France

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L’espulsione dalla Francia di Leonarda ha causato un’energica reazione da parte dei giovani cugini d’oltralpe. Si stenta a credere a una sollevazione di un’intera generazioni di francesi per una vicenda simile. La vicenda infatti non è altro che l’epulsione di una ragazzina “Kosovara” ( nata e cresciuta in Italia) dalla Francia. Per una simile questione, e qui sta la ragione della mia incredulità, in Italia non si è mai assistito a una indignazione così decisa e diffusa. Anzi tranne i pochi che si occupano della materia per mestiere, l’immigrazione è un tema agitato, se si esclude la flebile voce dei diretti interessati, esclusivamente dai media e dai politici. Ma non è mai assurto a tema capace di mobilitare le masse. Ci giunge sì qualche eco lontana delle inumane condizioni di vita nei centri di accoglienza; le cronache ci aggiornano sì sul numero delle vittime dei naufragi alle porte di Lampedusa… II tutto però viene percepito dall’opinione pubblica con un certo distacco: eventi da archiviare nel novero degli incidenti gravi ma statisticamente inevitabili. Nulla cioè di atto a interpellare nel profondo le coscienze. Non che ci sia da rimproverare nulla per questa specifica insensibilità riguardo al mondo dell’immigrazione: semplicemente va ascritta alla generalizzata lobotomizzazione che sembra affligere l’intera popolazione italiana, giovani compresi. Gli unici timidi rimbrotti che vedono ogni tanto protagonisti la gioventù italiana sono motivati per questioni, se si esclude la Tav, amministrative (vedi le tasse univesitarie ad esempio). L’ultima grande manifestazione che ricordi è il Vaffanculo Day. Mobilitazione magari anche sacrosanta ma se si pensa che a capeggiarla era, per quanto dotato di tutto il carisma che volete, un bravo comico, la cosa si ridimensiona da sè. Può anche essere, per carità, che le cose qui in Italia vadano nel migliore dei modi e che quindi non ci sia nessun bisogno di protestare a voce alta. Tuttavia questa apatia italica, sorattutto da parte dei giovani, non è un bel vedere e dà da pensare. Che sia sintomo di qualche grave malanno? Speriamo di no. Magari è solo una lieve e passeggera indisposizione. Allora dai, su, forza Italia. E intanto però vive la France.

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Da funerali di Stato a questione logistica

logistica

I naufraghi di Lampedusa, dopo le commosse promesse di funerali di stato, hanno via via perso lo status di di vittime da piangere. Da cadaveri ancora caldi andavano bene per dar sfoggio alle buone intenzioni, per disquisizioni sulla Bossi-Fini, per tardive ammissioni di colpa e recriminazioni all’Europa che non aiuta quanto dovrebbe. Ora che sono passati alcuni giorni e l’oblio sta attutendo gli echi della tragedia, ci si attarda a seppelire i morti. I cadaveri sono passati così da vittime che interpellevano le coscienze a problema igienico. Per poi, una volta chiusi nelle bare, fare un ulteriore salto e diventare questione logistica. Casse di legno sollevate con le gru e sistemate nelle navi per un ennesimo viaggio: migranti anche da morti. Carichi scomodi – come i rifiuti tossici – di cui sbarazzarsi rapidamente e senza dare tanto nell’occhio. Forse funerali di stato era troppo per dei poveri disgraziati che per giunta a questo Stato nemmeno appartenevano. Ma un estremo saluto dignitoso vorremmo ancora illuderci sia un diritto garantito a tutti. Sembra invece, come anche l’affare Priebke insegna, che in questo Paese, se si è non graditi, lo si è più da morti che da vivi.

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L’intellettuale da facebook o Frate Indovino

calendario
In quel condominio dalle pareti trasparenti che è facebook sta prendendo piede (ve ne sarete accorti) una nuova figura di intellettuale: l’intellettuale da facebook. I pensieri di costui, gli “status”, di norma, sono meno corti di un tweet ma certamente più distesi di un aforisma. Questo nuovo tipo antropologico non è in qualche modo assimilabile alle tante figure istituzionalizzate e perciò credibili quando diffondono, seppur non richiesto, sapere. Infatti, questa nuova figura, non è nè un guru, nè un accademico, nè un giornalista, nè un opinionista, nè niente di simile. Si potrebbe dire invece che è un esperto in ricorrenze. Per ogni dì che Dio manda sulla terra lui ha a portata di mano una relativa ricorrenza: 8 marzo è la festa adella donna, l’11 settembre l’attentato alle Twin Tower e via elencando. Ovviamente non ci dice solo che riccorrenza è ma ha sempre qualche aspetto insolito da rivelarci (la rete e wikipedia ne sono pieni). L’intellettuale di facebook è insomma una specie di Frate Indovino, solo che al posto di dirci che santo è oggi e altri consigli edificanti ci ricorda che anche oggi, nella storia, c’è stato un qualche evento che come minimo merita un minuto di silenzio. A differenza di Frate Indovino che è uno ed uno solo ed ha comunque le sembianze innocue di un calendario, l’intellettuale da facebook è una specie numerosa ed è in continua crescita, difficilmente perciò evitabile. Allo stato attuale, finchè uno dei tanti intellettuali da facebook non sarà diventato così autorevole da farsi lui stesso – sulla scia di Frate Indovino – un calendario, tocca sorbirseli tutti.

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